Ma la solennità di quell’abolizione avveravasi il vensette dello stesso mese, intervenendovi con tutte le formalità viceregie il Caracciolo. Furono messi in libertà i prigioni, e fu curioso il vedere, in quella circostanza, una vecchia, creduta strega, istanzare caldamente che si lasciasse morire, dov’era almeno sicura di non mancar di alimenti; mentre la molta età che pesavale sulle spalle, e lo scredito in ch’eran cadute le sue pari, non le davano altra speranza di vivere. Il marchese di Villabianca, cui dobbiamo lo averci serbato i materiali della nostra più recente storia, da quell’uomo ingenuo che era e tenero d’ogni cosa patria, senza curarsi del bene o del male che producesse, esprime i suoi dolori anche per l’abolizione del santo Uffizio. E benchè confessasse di essersi anch’egli, per maggior sicurezza della sua persona, ascritto tra i familiari dell’inquisizione, pure non lascia di tesserne la difesa; e tra gli altri pregi che le attribuisce, la dice ospitale a quei poveri che destituiti d’ogni altro mezzo di vita, faceansi di qualche fallo accusare per assicurarsi vitto e prigionia. Che vi fossero molti cui dolesse quell’abolizione è ben naturale, perchè molti fra inquisitori e impiegati subalterni viveano innocenti di quell’abuso della santa nostra religione di pace e di carità; ma queste considerazioni non arrestano la mano de’ provvidi e sapienti monarchi che imprendono le utili riforme; e Ferdinando III di Sicilia processe con fermo braccio e con serenità di coscienza a quel saggio provvedimento, lasciando però che gl’impiegati dell’abolito tribunale si godessero a vita i loro stipendî. Secondando il tripudio popolare insorto all’atto magnanimo, avrebbe voluto il Caracciolo celebrarlo con inni e rendimenti di grazie all’Altissimo, ma stimò poi consiglio più prudente il non dar motivo a’ maligni di confondere l’abuso che venivasi di sradicare, col rispetto dovuto alla religione e alla santità de’ suoi ministri.
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