Palermo nella sua generalità non seppe bene giudicare quell’uomo, perchè sede principale di quel cospicuo e dovizioso baronaggio, che il Caracciolo aveva impreso per tutti i modi a reprimere. Più che mezza la popolazione di Palermo componeasi di famiglie nobili, di servi, di contabili, di gente di foro, in gran parte anche ligia ai baroni e da essi stipendiata. Molti di quelli che viveano di libere professioni e di arti meccaniche parteggiavano per la classe dei ricchi, cui poteano con maggiori guadagni vendere il frutto de’ loro ingegni e delle loro mani. Certo che l’esorbitanze baronali pesavano orrendamente sugli agricoltori, che sono gli uomini più rispettabili della società, ma ciò non faceasi che a vantaggio di Palermo, dove poi erano profuse tante ricchezze bene o male acquistate. È questo il solito male che patiscono i regni quasi tutti ed in ogni tempo: membra estenuate che alimentano capi giganteschi.
Pertanto fu tenuto allora il Caracciolo, strano di modi, d’indole avventata, novatore indiscreto, mentre quella che parve stranezza era filosofia spregiudicata, quella subitaneità di risoluzione, impazienza di veder tolti gli abusi, e la irrequieta brama delle novità, spirito di utili riforme. Altri pochi anni di suo viceregnato avrebbero affrettato di mezzo secolo almeno la civiltà di Sicilia.
Era già sin dal 20 marzo 1785 venuto a Palermo da tenente generale Gioachino de Fonsdeviela, il quale, forse presentendo la carica cui poteva ascendere per la partenza del Caracciolo, avea preteso far la sua entrata solenne con pompa viceregia.
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