Furono quindi tormentati i colpevoli, e senza alcun pro, poichè a nessuno fu strappata di bocca parola che dasse anche il menomo sospetto dei concepiti timori. Nel giorno in cui si aprì il processo stettero i soldati sulle armi, e non fu permesso di entrare a palazzo, dov’erano i tribunali, con la spada al fianco, che facea parte dell’abito di ogni gentiluomo a quei tempi. Furono conceduti otto giorni alla difesa di Francesco Paolo Di-Blasi, di Benedetto la Villa, di Giulio e Giovani Tenaglia, di Salvatore Messina, di Gaetano Carollo, di Bernardo Palumbo, di D. Gandolfo Bonomo, di maestro Francesco d’Anna, di Nunzio Ruvolo; altri messi a sentenza di bando, altri deportati in Napoli. A 18 maggio fu profferita la sentenza, che condannò nel capo il Di-Blasi, uno de’ fratelli Tenaglia, la Villa e Palumbo, il primo alla mannaia, i tre altri alla forca; il rimanente subì condanna di ferri da venti a tre anni, secondo che fu graduata la reità di ciascuno. Dopo due giorni fu eseguita la sentenza nel piano di santa Teresa. Il delitto combinato, e non eseguito, e il timore di un possibile trambusto allontanò il popolo dalla esecuzione. Il Di-Blasi morì rassegnato ma intrepido, e poche ore prima di salire il palco diè prova di non comune tranquillità di cuore e di presenza di spirito, scrivendo qualche poesia analoga alla circostanza, e un foglio diretto al re col quale accertavalo non avere la trama altro seguito, e che in lui e ne’ suoi noti compagni racchiudeasi tutto il numero de’ complici della folle intrapresa.
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