Dopo tanti e tanti anni aprivasi finalmente a 24 marzo un siciliano parlamento, risedendo a Palermo la corte. Fu dignitoso il discorso di apertura letto dal protonotaro, non in nome, questa volta, di un suo rappresentante, ma del re medesimo (2605). Il parlamento rispose all’espettazione del sovrano [712] in quanto a’ sensi di rispetto che gli erano dovuti, e in quanto al concedere i donativi; ma dissentì gravemente dagli altri due il braccio demaniale intorno alla ingiusta ripartizione delle imposte. Erano questi semi che pullulavano dall’anti-feudale viceregnato del Caracciolo. Oltre a’ donativi soliti, ordinarî e straordinarî, ne concesse il parlamento un altro di scudi 150 mila, e un altro ancora di un milione di ducati pagabile in quattro anni in contante, e finalmente un terzo direttamente alla corte di onze centocinquanta mila per quattro anni,
Questa facile larghezza del parlamento derivò sopratutto dalla presenza della corte, e dalla ambizione baronale risorta per le graziose maniere del re e della reale famiglia, cui era dato a’ baroni facilmente accostarsi. Spinsero anzi questi la loro cavalleresca riserbatezza a tanto, che si astennero dal chiedere al re altre grazie fuori quella della sua benigna protezione. Gli altri due bracci al contrario, volendo mettere a profitto la circostanza, avanzarono molte dimande di grazie. Lo ecclesiastico implorò 1° che le competenze giurisdizionali del clero cadessero in mani ecclesiastiche; 2° che si eriggessero altri vescovati in Sicilia, e che, dove mancasse un congruo assegnamento, si prendesse da’ vescovati più pingui.
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