Poichè saggiamente diceva trovarsi quei fossili disposti in istrati regolari, e situati in più e distanti cave di pietra, come se ad arte fossero stati collocati nel medesimo piano e alla medesima altezza. E così parlando di tutte le varie specie dei nicchi marini sul nostro suolo esistenti, notava l’unicorno fossile minerale, che non di rado s’incontra in mezzo a quel tufo; e quindi, su di esso dottamente ragionando, conchiudeva esser cosa certa che l’unicorno contiene solfato di calce, nè si poteva perciò riprendere colui che lo terrebbe per osso o d’animale marino, o per terrestre che più non esiste. Per le quali cose ben si vede come avesse lo Scinà sin dal 1818, in cui pubblicò la sua topografia, ragionato sulla indole dei terreni che circondano la nostra città, e sulle alluvioni e rivoluzioni della natura ivi avvenute. Onde scoprendosi la grotta di Mardolce non fu più malagevole ai buoni pensatori riconoscer tosto la vera proprietà di quell’immenso ammasso di ossami. Il primo che vi rivolse il pensiero fu il celebre naturalista Antonino Bivona, di cui sono ancor calde le ceneri. Egli coll’acutezza del suo intelletto vide che fossili doveano essere le rinvenute ossa, e consultando perciò l’opera del Cuvier si rassodò, con questa divina fiaccola, nelle concepute idee, e venne quindi annunziandoci, che prezioso tesoro eran quegli ossami, che fossili doveano reputarsi, e che ad ippopotami, od elefanti, a cervi, e ad altre razze d’animali appartenevano. Ma mentre tali concepimenti facean tanto onore all’ingegno del Bivona, venivano ad accrescer nello stesso tempo la gloria allo Scinà. Perciocchè questi avea già stenebrato le menti, le avea fatto accorte che i contorni e tutta la pianura di Palermo era un ammasso di sabbione, tufo calcare, argilla, sabbia, conchiglie marine; era ricca di fossili; era un deposito di mare; le avea guidate al filosofar presente, e a vedere quel che oggi in effetto vedeano.
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