Ecco lo stato in cui trovavasi Sicilia nel 1835 e 1836, tempo in cui il principe di Campofranco spiegava tutta l’energia e l’attività del suo animo per spingere a fiorigione l’isola nostra; e invero ogni cosa pareva concorrere al bene e vantaggio di questa classica terra, perchè l’opere egregie che s’imprendevano, e presto si riducevano a perfezione, nel mentre recavano quello effetto benefico per cui si creavano, dall’altro lato accrescevano poi gloria e rinomanza al paese ove si vedevan sorgere. Così per esempio l’esposizione delle manifatture del predetto anno 1836, pareva, superando ogni aspettazione, voler gareggiare con le altre delle più civilizzate parti dell’Europa. I lavori di sete e di cotone, le belle manifatture d’acciajo, e d’oro, l’egregie macchine inventate a pro dell’industria e dell’agricoltura cospiravano grandemente a far destare fra noi quell’amore e quella emulazione che presso gli altri popoli tanti belli effetti hanno prodotto a vantaggio della nazionale prosperità e dello incremento della civilizzazione.
Erano intanto scorsi ben ventun’anno che la regia zecca di Palermo non improntava delle monete, perchè dal 1815 in poi, tempo del riacquisto di Napoli di re Ferdinando I, il medesimo sovrano avea disposto che la coniazione si facesse tutta in quel regno; sicchè l’altra di Palermo rimase da quell’epoca inoperosa, ed il batter qui delle monete era riguardato difficile a cagione della somma attività della zecca dell’altra parte dei reali dominî. Ciò non ostante però Ferdinando II nel 1836 permise, che si potesser coniare in Palermo delle monete, ed infatti quella regia ufficina si pose subito nella primiera attività, e furono improntati dei pezzi di grani dieci siciliani, di cinque, di due, di uno, e di mezzo grano ancora.
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