I consiglieri, che chiamavansi anche reggenti, erano sei, cioè due per Milano, due per Napoli, e due per il regno di Sicilia; ma dei due magistrati per ogni provincia, uno era nazionale, e l’altro straniero. Sceglievasi il nazionale, non meno che lo straniero, dal ceto dei giureperiti. Questa carica era di cotal pregio, che veniva stimata per la migliore, che potesse avere un giureconsulto siciliano, di maniera che i presidenti stessi dei nostri tribunali riputavano a sua gloria di passare dal grado, in cui erano, a quello di reggenti del supremo consiglio d’Italia. Leggansi i cataloghi ragionati in fine di questo volume. Nel torbido governo di Vittorio Amedeo non vi fu forma alcuna di vero consiglio, e solamente sappiamo, ch’ei ritornando a Torino condusse seco da Sicilia il presidente della gran corte Vincenzo Ugo, ed essendo questi ritornato ai 9 di maggio 1716, fu in di lui luogo chiamato lo avvocato fiscale della medesima gran corte, Niccolò Pensabene, (Mongitore Diario di Pal. t. III, pag. 157). Venendo poi in potere degli Austriaci, nel parlamento tenutosi dal vicerè Niccolò Pignatelli ai 16 maggio 1720, fra le grazie dimandate a S. C. M. dagli ordini dello stato, vi fu quella, che si degnasse di concedere alla Sicilia un terzo reggente, come lo aveano ottenuto Milano, e Napoli, e che questi fosse un parente di alcuno dei baroni parlamentarj, cui eglino si obbligavano di assegnare il soldo di cinque mila scudi all’anno, da pagarsi per metà dal braccio militare, e dalle università baronali, e per l’altra metà dal braccio demaniale, e che nel caso che l’augusto principe non volesse accordare codesta grazia, che restasse almeno contenta che uno dei deputati del regno, da eleggersi dalla medesima deputazione, andasse a risedere collo stesso assegnamento in Vienna, per suggerire al sovrano ciò, che tornasse a benefizio della Sicilia.
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