VII. c. I.
(41) Da niuno scrittore meglio, che da Cicerone si potrebbero trarre autorità in difesa di questa opinione: e certamente i detti di così grande, e virtuoso uomo sono di non lieve peso. Egli giunse a dichiarar colpa gravissima il non difender, potendolo, l'amico. Injustitiæ, dice egli, genera sunt duo: unum eorum qui inferunt, alterum eorum qui ab iis quibus infertur, si possunt, non propulsant injuriam. Nam qui injuste impetum in quempiam facit, is quasi manus afferre videtur socio. Qui autem non defendit, nec obsistit, si potest, injuriæ, tam est in vitio, quam si parentes, aut amicos, aut patriam deserat. Cic. de Off. lib. 1. c. 7.
Solo si potrebbe avvertire, che sembra il discorso di Cicerone riguardar soltanto i doveri de' privati nello stato di società civile, e regolata, e non le Sovranità, che son tra loro in un stato di sola natura. Ora nello stato civile a ripulsar l'ingiuria dell'amico non son necessarie le armi, e la guerra; anzi basta il metter in chiaro la verità, patrocinarla, implorar l'autorità de' magistrati, o del Principe, e tentar altre consimili pacifiche vie per la salvezza dell'innocenza. Nè da chi l'imprende è tanto da temersi l'irritazione, che ne avverrà della parte contraria; perchè è questa sempre trattenuta, e frenata dal timor delle leggi, e de' gastighi. Non è così tra gli enti indipendenti affatto tra loro, de' quali l'irritazione è senza freno, e quindi di più lunga durata. Infine sotto al governo civile gli uomini sono, e debbono essere in uno stato di confidanza tra loro; ma nello stato di natura sono, e debbono essere in uno stato di perpetua diffidenza, come io dirò in appresso.
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