Si può osservare come l'elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un «aroma» ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali. Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata. «Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.». La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose» ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddittoria, manca di unità critica, ecc. Ma quando il «subalterno» diventa dirigente e responsabile dell'attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere. I limiti e il dominio della «forza delle cose» vengono ristretti perché? perché, in fondo, se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è piú una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché «resistente» a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non piú resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente.
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