Risalendo alla tradizione della filosofia classica, particolarmente a Fichte, Tilgher ribadisce con grande vigore la dottrina della libertà e del "dover essere". Dove non c'è libertà di scelta, c'è "natura". Impossibile sottrarsi al fatalismo. La vita e la storia perdono ogni senso e nessuna risposta ottengono gli eterni interrogativi della coscienza. Senza riferirsi ad un quid che trascenda la realtà empirica, non si può parlare di moralità, di bene e di male. Vecchia tesi. L'originalità di Tilgher consiste nell'aver esteso per primo questa esigenza alla logica. Il "dover essere" è necessario alla logica non meno che alla morale. Di qui l'indissolubilità della logica e della morale che i vecchi trattatisti amavano tenere distinte. Posta la libertà come una premessa necessaria, ne consegue una teoria del libero arbitrio come assoluta possibilità di scelta fra il bene e il male. Cosí la pena (acutissime le pagine su il diritto penale) trova il suo fondamento non soltanto nella responsabilità (scuola classica) ma nel fatto puro e semplice che l'individuo può fare il male conoscendolo come tale. La causalità può tenere le veci della responsabilità. Il determinismo di chi delinque equivale al determinismo di chi punisce. Tutto bene. Ma questo energico richiamo al "dover essere", all'antistoria, che crea la storia, non restaura, logicamente, il dualismo e la trascendenza? Non si può riguardare la trascendenza come un "momento" senza ricadere nell'immanentismo. Non si viene a patti con Platone».
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