In Lavoisier si trattava di elemento utopistico (elemento che appare piú o meno in tutte le correnti culturali che presuppongono l'unicità di «natura» dell'uomo) tuttavia per il Vilici esso aveva significato dimostrativo-teorico di un principio politico.
Se la filosofia della prassi afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore «provvisorio» (storicità di ogni concezione del mondo e della vita), è molto difficile far comprendere «praticamente» che una tale interpretazione è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l'azione. Questa è, d'altronde, una difficoltà, che si ripresenta per ogni filosofia storicistica: di essa abusano i polemisti a buon mercato (specialmente i cattolici) per contrapporre nello stesso individuo lo «scienziato» al «demagogo», il filosofo all'uomo d'azione, ecc. e per dedurre che lo storicismo conduce necessariamente allo scetticismo morale e alla depravazione. Da questa difficoltà nascono molti «drammi» di coscienza nei piccoli uomini e nei grandi, gli atteggiamenti «olimpici» alla Volfango Goethe.
Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza.
Perciò avviene anche che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando, come nel Saggio popolare, esso è confuso col materialismo volgare, con la metafisica della «materia» che non può non essere eterna e assoluta.
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