L'atteggiamento del De Man è invece quello «scientifista»: egli si china verso il popolo non per comprenderlo disinteressatamente, ma per «teorizzare» i suoi sentimenti, per costruire schemi pseudo-scientifici; non per mettersi all'unisono ed estrarre principi giuridico-educativi, ma come lo zoologo osserva un mondo di insetti, come Maeterlinck osserva le api e le termiti.
Il De Man ha la pretesa pedantesca di porre in luce e in primo piano i cosí detti «valori psicologici ed etici» del movimento operaio; ma può ciò significare, come pretende il De Man, una confutazione perentoria e radicale della filosofia della prassi? Ciò sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande maggioranza degli uomini è ancora alla fase tolemaica, significhi confutare le dottrine copernicane, o che il folclore debba sostituire la scienza. La filosofia della praxis sostiene che gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale sul terreno delle ideologie; ha forse escluso il popolo da questo modo di prender coscienza di sé? Ma è osservazione ovvia che il mondo delle ideologie è (nel suo complesso) piú arretrato che non i rapporti tecnici di produzione: un negro appena giunto dall'Africa può diventare un dipendente di Ford, pur mantenendosi per molto tempo un feticista e pur rimanendo persuaso che l'antropofagia sia un modo di nutrirsi normale e giustificato. Il De Man, fatta un'inchiesta in proposito, quali conclusioni ne potrebbe trarre? Che la filosofia della praxis debba studiare oggettivamente ciò che gli uomini pensano di sé e degli altri in proposito è fuori dubbio, ma deve supinamente accettare come eterno questo modo di pensare?
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