Questo forse volevano dire quegli scrittori che, come accenna molto affrettatamente il saggio nel primo capitolo, negano si possa costruire una sociologia dalla filosofia della praxis e affermano che la filosofia della praxis vive solo nei saggi storici particolari (l'affermazione, cosí nuda e cruda, è certamente erronea e sarebbe una nuova curiosa forma di nominalismo e di scetticismo filosofico). Negare che si possa costruire una sociologia, intesa come scienza della società, cioè come scienza della storia e della politica, che non sia la stessa filosofia della praxis, non significa che non si possa costruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è l'espressione metodologica dell'importanza che i fatti particolari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile «individualità», non si può escludere l'utilità pratica di identificare certe «leggi di tendenza» piú generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali. Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e nell'arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive - per [rispetto al]le quistioni che interessano lo storico e il politico - o si suppone rimangano passive. D'altronde l'estensione della legge statistica alla scienza e all'arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire prospettive e programmi d'azione; se nelle scienze naturali la legge può solo determinare spropositi e strafalcioni, che potranno essere facilmente corretti da nuove ricerche e in ogni modo rendono solo ridicolo il singolo scienziato che ne ha fatto uso, nella scienza e nell'arte politica può avere come risultato delle vere catastrofi, i cui danni «secchi» non potranno mai essere risarciti.
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