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      I deputati socialisti di Francia cercarono di far estendere il principio anche nel campo proletario. Dissero cioè: se la legge riconosce che il capitalista ha diritto a partecipare in qualche modo al plusvalore verificatosi per opera sua nel capitale di proprietà di un terzo, sempre rimanendo nel campo dell'esercenza, perché i commessi di negozio, che hanno contribuito con la loro abilità all'incremento della ditta, all'acquisto di una clientela, ecc. non devono partecipare agli utili, e invece possono essere messi alla porta senza che la legge dia loro diritto ad un indennizzo? Naturalmente, trattandosi di relazioni fra capitale e lavoro, la mozione socialista cadde nel vuoto e le fu negata ogni importanza.
      Ma rimane la constatazione del fatto. L'affermazione marxista del plusvalore non è quella enorme sciocchezza che gli economisti borghesi vogliono far parere. In paesi dove lo svolgimento capitalistico ha raggiunto una fase piú perfetta sono state riconosciute, pur entro certi limiti, le pretese di determinati ceti borghesi a fruire di esso a danno di altri ceti. È evidente che il capitalismo crea di per se stesso gli stati d'animo e le condizioni che concorrono al progressivo svalutamento del sacro diritto alla proprietà, e che non sta che nella buona volontà e nell'energia rivoluzionaria del proletariato di condurre questi iniziali riconoscimenti alle loro ultime conseguenze, e cioè che l'unico proprietario del capitale, che è tutto un plusvalore di una ricchezza terriera iniziale, è il produttore, il lavoratore che con l'energia delle sue braccia e col sacrificio della sua vita spirituale, lo ha creato, lo ha portato alle condizioni in cui si trova attualmente di prosperità e di potenzialità di ulteriore sviluppo.


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Sotto la mole
1916-1920
di Antonio Gramsci
pagine 742

   





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