Il rappresentante tipico del pervertimento del buon gusto paesano è un altro, e si chiama pure Mario, ma Casaleggio. Adesso ha tirato fuori La cagnotte del Labiche, come se alle sue libidini di vecchia scimmia da palcoscenico non bastasse piú il pascolo che abbondante gli offrivano i vari Corvetto, Chiappo, Consiglio, Molar, Colombino, ecc. ecc., che schizzano i loro inchiostri sulla carta monolineare o pentagrammata.
L'equivoco su cui gioca, con la compiacente soffietteria giornalistica, l'emerito capocomico, è semplicissimo: confondere il comico col ridicolo. La comicità è tutta spirituale, il ridicolo è tutto fisico e fatto di smorfie. Per essere ridicoli non ci vuole nessuna arte. Basta esserlo, ed esibirsi al pubblico nella propria sincera natura. E non si contrasta che anche il ridicolo possa essere e sia merce di scambio e di consumo. I circhi equestri, le compagnie di saltimbanchi vivono e prosperano, e cosí facendo dimostrano di essere necessari e di rispondere ad un bisogno del pubblico che paga. Ma queste istituzioni non la pretendono a teatro, e i giornali ne fanno la réclame solo a pagamento, negli echi di cronaca. Il Casaleggio invece, che ha incominciato nei baracconi di legno, non ha voluto mantenervisi. Ha fatto carriera, come si dice, ed ora la sua compagnia, nella quale del resto non mancano i buoni elementi, esercisce il Vittorio Emanuele, dove sono passate alcune delle piú illustri personalità del teatro italiano.
Casaleggio ha prostituito al cattivo gusto dialetto, provincia, paesaneria.
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