Nel mezzo una costruzione in cemento armato, e sentinelle dappertutto, le campane del gergo che dovevano suonare a martello all'appressarsi del nemico. Un luogo sicuro dalle sorprese, dove i poliziotti ritenevano poco igienico recarsi. E intanto a S. Carlo l'acuto cervello dei commissari, del questore, del vicequestore e dei minori praticanti si affilava per un comizio privato di dieci persone, per un manifestino incendiario, e costruiva complotti, vedeva congiure dei nemici interni e all'occasione faceva arrivare dalle città vicine reggimenti di cavalleria, compagnie su compagnie di carabinieri e di guardie di finanza. E forse mentre sul corso Siccardi infuriava la bufera, là nella corte dei miracoli, la bordaglia beveva il vino rubato nelle cantine, giocava alle piastrelle i denari rubati alle casseforti dei negozi dai soliti ignoti penetrati mediante chiavi false, e si allietava alle carezze delle lupe rigurgitate dai postriboli cittadini. E doveva ridere la canaglia e del questore e del vicequestore e dei Tabussi, e di tutti i loro minori praticanti che eroicamente si facevano crivellare di colpi per l'onore e il decoro di quella parte dell'Italia contemporanea che non è piú barbara.
(20 marzo 1916).
UNA PERSONALITÀ
Ohibò! La nostra mania iconoclastica si merita un altro rimbrotto. La giovine «Patria» — del giovine Girola Tulin — cambiamo stile e termini perché il leader giornalistico del nazionalismo torinese pare sia indotto a cambiare metodo in nostro confronto — ci rimprovera di aver parlato male di Garibaldi, cioè di quella cara persona che noi, dopo aver durato fatica molta a classificarla nel regno zoologico, nell'incertezza della definizione, nel dubbio della scelta tra l'anfibio e... il resto, con una terminologia di «aggressori» impenitenti, che rileva la contraddizione del «soggetto», abbiamo finito per identificarla — quella cara personalità — in una sputacchiera.
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