È vero che nessuno dei firmatari del telegramma è studioso di storia antica, ma tuttavia un po' piú di precauzione sarebbe da augurare in persone serie e assennate come il prof. Pastore e il prof. Silvestri.
La ragione della fortuna di Guglielmo Ferrero non è difficile da ritrovare. La pubblicazione dei suoi volumi su Roma coincise con un periodo di infatuazione democratica, che, se procurò all'Italia alcune libertà indispensabili, mise anche in circolazione una quantità di gente che molto piú utilmente avrebbe potuto rimanere nell'ombra. Pressapoco, ciò che in piccolo successe a Tommaso Monicelli per il teatro e ad Enrico Ferri per la scienza criminale. Applaudire una commedia di Tommaso Monicelli era affermazione di partito; esaltare la scienza ferriana era affermazione di partito. Tramontati dall'orizzonte socialista, i due tramontarono anche dall'orizzonte intellettuale. Le «speranze» del nuovo teatro e della nuova scienza rimasero quelle che erano: degli stopposi manipolatori di parole senza possibilità di sviluppo, dei palloncini che il proletariato aveva gonfiati del suo entusiasmo sincero e che si sgonfiarono appena venne a mancare in loro la fede.
Cosí fu per Guglielmo Ferrero. L'inquadramento che egli fece della storia romana nei clichés democratici del tempo, sembrarono una grande novità e furono esaltati come un progresso. Come potevano sapere i lettori delle migliaia di esemplari dei libri ferreriani che tutte quelle costruzioni erano in gran parte cervellotiche, che l'autore aveva, per esempio, del greco solo una nozione superficiale che lo faceva cadere in errori grossolani e ridicoli?
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