Anche Marco Sbroda, pare impossibile, ha il suo satellite che umilmente si inchina e si genuflette alla sua maestosa autorità e guardandoci in tralice lascia cadere su noi la sua disapprovazione e il suo disprezzo. Brrr che freddo nelle midolla! Terenzio Grandi, il cittadino perseguitato dalle sgrammaticature dei proletari, che si dimette da direttore dell'organo dei tipografi per non perdere la coscienza della sintassi dopo aver perduto quella della repubblica santa. È il chierichino. La fregola di entrare nella banda degli scorticatori, che dalle rive dell'Orenoco si è stabilita a Torino fra i cessi o i carielli, ha finalmente esploso in una colonnina di prosa assettatuzza e fragrante di incenso e di mirra. Lo Sbroda è proprio fortunato: le sue fatiche di fisarmonico, costretto per ragioni di materialismo economico a dar sempre maggior respiro al suo organo frasaiolo per allungare il numero delle righe e il conto dell'amministratore, sono state ricompensate dal soffiettino paterno dell'ex direttore di tanti preziosi fogli ormai passati alla posterità. Ma a costui, che per la sua onesta faccia di fraticello novizio ci ispira ancora qualche simpatia, domandiamo fra un'incensata e l'altra; come spiega il fatto che il documentario Sbroda, di mille cubiti piú alto moralmente di noi, ci abbia rimproverato di aver delle spie al ministero che ci fornivano informazioni sull'inchiesta della gestione Orsi? Come mai questo catone degli scaracchi in tram, ha preso le difese del conte che non voleva rendere i conti, e a noi che conducevamo una campagna per impedire che sopraggiungesse una prescrizione, ha buttato fra le gambe, credendo di stancarci, la faccenda della Cassa pensioni, intorno alla quale Donato Bachi potrebbe fornirgli chiarimenti migliori e piú da competenti?
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