Il fatto stesso che il pio marchese abbia ridotto gli enormi fatti storici che si stanno svolgendo alla risibile parodia su riportata, dimostra come egli non abbia capito il valore del nostro dilemma che è tirato diritto diritto dal piú rigido realismo storico che abbia mai trovato la sua giustificazione nel piú recente idealismo filosofico di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Non capisce, il nuovo crociato dell'imperialismo spirituale latino-guelfo, che il papa quale egli se lo immagina è un'astrazione, non un dato storico: astrazione di una morale cristiana, o cattolica, o gesuitica, che aleggia su tutta l'umanità, senza che con esattezza possa dirsi in quali forze attive precisamente s'incarni, di quali mezzi efficaci possa servirsi per imporre e fare osservare i suoi comandamenti.
Unica base di questa autorità possono essere le coscienze individuali. E se esse non impongono con una voce sola, collettiva, enorme, irresistibile, ai governanti l'assunzione del papa a supremo arbitro della pace, ad unico genuino assertore delle loro aspirazioni, dei loro voti, vuol dire che questa tanto strombazzata autorità morale è un mito, è una favola illusoria e grottesca, di cui Filippo Crispolti s'è fatto il gratuito e ridicolo profeta. Perché egli, come ogni credente (facciamo l'ipotesi piú benevola) confonde il dover essere con l'essere. Misura l'intensità della fede in base alle statistiche dei censimenti; questi affermano che almeno la metà piú uno dei combattenti sono cristiani, quindi ispirantisi alla cattedra di S. Pietro; solo per questa ragione democratica del numero, amorfo, incosciente, inutile, il papa dovrebbe essere l'autorità massima, il giudice supremo.
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