Piú senza imbarazzi di cosí, l'aio Crispolti non potrebbe essere. In fondo egli è un pragmatista (sebbene ciò puzzi maledettamente d'eresia), un credente nella volontà di credere. «Vogliamo credere che il papa sia» ecc. ecc., e il papa immediatamente è ciò che noi vogliamo...
Ma questo gioco si fa con i maori o gli ottentotti. Non non vogliamo credere. E riproponiamo il dilemma, per mettere in imbarazzo l'aio casista.
(18 maggio 1916).
VANITÀ, VIRTÚ CARDINALE
È veramente esasperante che non si riesca una volta ad andar d'accordo con Teofilo Rossi. Ne siamo veramente desolati: tanto piú che vorremmo riuscire a sorprendere il segreto che gli permette di essere sempre cosí ilare, cosí cuorcontento, cosí riboccante di saporose virtú paesane come una pagnottella gravida di mentastro e di strutto appena sfornata da una contadinotta piena d'appetito.
È sicuro di sé, il buon uomo, certo di rappresentare una grande parte nel mondo, e la vanità lo nutre. La vanità è la pianticella che con piú amore egli coltiva nel chiuso orto della sua coscienza, innaffiandola quotidianamente con abbondanti cascatelle di metallici dischi e di pergamene leggiadramente miniate. Essa gli diventa la leva che muove l'universo. Se ne serve nelle sue funzioni sindacali, come ultimo rimedio, come mezzo estremo. Per la sottoscrizione — dopo un anno di frasi reboanti, di pappardelle melense ispirate alla letteratura che corre le bancherelle dei libri usati — ha trovato il rimedio dell'albo d'oro, della pubblicazione cortigiana in cui sfileranno facendo bella pompa di sé tutti i sottoscrittori, ai quali sono state mandate per rincalzo nuove circolari che promettono gloria e fama a caratteri vistosi per quelli che maggiormente si distinguono.
| |
Crispolti Teofilo Rossi
|