Di questi agglomerati politici era facile la critica; bastava dimostrare che il loro contenuto politico ed economico era essenzialmente borghese, perché il partito nostro, ormai uscito di minorità, non potesse piú a lungo sostenere il loro contatto. Coi sindacalisti e gli anarchici le distinzioni sono piú delicate e piú sottili. Non si può negar loro di essere nati e di trarre la loro energia dal fecondo terriccio della lotta di classe, di essere emanazioni del proletariato, insomma. Ma basta tutto ciò per proporre una fusione? E non potrebbe questa diventare una confusione? Ci sono delle differenze evidentemente, tra noi e gli altri due gruppi; perché non si tratta solo di parole, di nomi. E chi dei tre rinunzierà a differenziarsi ed accettare quello dei programmi che sarà riconosciuto piú logico, piú utile per sovvertire la realtà attuale?
Perché, se non si vuol fare una revisione di valori, se non si vogliono crivellare le tre teorie (e son certamente tre teorie ben individuate) per assumere come segnacolo i loro residui o i loro ampliamenti, non si riuscirà ad altro che ad una riforma burocratica, ad un accentramento meccanico senza alcun valore ideale né pratico. Una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell'azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere, un avversario comune da colpire. E l'unità delle forze sovversive si attuò infatti meravigliosamente nel 1914. Ma dopo quella magnifica scrollata che si diede alla tarlata e scricchiolante carcassa dello Stato italiano, ognuno ritornò al proprio compito, con utilità comune, perché si era imparato perlomeno a rispettarsi, ad amarsi l'un l'altro.
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