(2 luglio 1916).
SESSANTAQUATTRO E TREDICI
Sessantaquattro è il numero dei consiglieri della maggioranza. Sessantaquattresimo è il sesto preferito dai librai che lanciano nel mercato i libri della cultura spicciola, quelli che si mettono nel taschino del panciotto, che si offrono alle signore tra una chicchera di the e l'altra, e si buttano via senza rimpianto, perché non starebbero bene in nessun scaffale, accanto agli altri volumi, seri, composti, gravidi di pagine e di contenuto. Fra i sessantaquattro ci deve essere, e c'è infatti, un sessantaquattresimo, un tomino gingillo, un bebé dei padri coscritti, che lo accarezzano e gli fanno festa quando è utile sfogliarlo, e lo mettono nel taschino o in soffitta quando la sua vocetta stridula e balbettante dà noia o è fuori luogo. Accanto alla cultura accademica dei professori come Foà, Einaudi, Ruffini, ecc., accanto alla onniscienza squarquoia di Teofilo Rossi e di Luigi Grassi, rappresentanti l'intellettualità libera, l'autodidattismo, la vecchia tradizione del giornalismo piemontese un po' togato, ma battagliero, la critica musicale e letteraria del Piemonte buzzurro, che imponeva Wagner al becerismo fiorentino stornellaio e piedigrottaio della nuova Italia. Come l'ape della favola ha vagato di fiore in fiore nel giardino della cultura, ma il sesto è rimasto sessantaquattresimo. Demi-mondaine dell'intellettualità, non può liberarsi del baco che lo rode, che lo deturpa; non riesce mai a farsi prendere sul serio, ad uscire dalla cerchia dell'occasionale, dell'attimo fuggente, per occupare anche un modesto posticino fra gli in quarto e gli in ottavo delle biblioteche serie.
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