Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all'ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall'aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell'89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.
E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà piú che all'ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall'ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell'antropologia criminale.
Non abbiamo simpatia per il romanticismo francese. Eppure desidereremmo che uno di quei grandi retori, di quei feticisti del «popolo» inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività possa davvero essere difesa da loro.
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Pubblico
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