Un civico magistrato si è fatto cogliere con le mani nel sacco, come un volgare ladroncello di Porta Palazzo: ha commesso un reato che è grave e infamante qualitativamente, non quantitativamente, per il pervertimento morale di cui è indice, piú che per il danno effettivo che ha arrecato alla collettività. La squalifica morale di un tale individuo dovrebbe essere chiara e sicura, perché solo se chiara e sicura può essere educativa, può servire a formare un criterio di giudizio sociale, e quindi ad elevare il livello di vita, a migliorare il costume.
Queste considerazioni sono piane e oneste; ma appunto per ciò non sono clericali. Osservate con che sottile e furbesco lavorio di erosione il «Momento» cincischia la banale notizia di cronaca:
Le dimissioni sono conseguenza della condanna a sette giorni d'arresto e 140 lire di ammenda inflittagli dal pretore urbano perché incolpato d'avere permesso che nella sua panetteria in via Barbaroux, si fosse fabbricato del pane di peso e forma non corrispondenti alle prescrizioni, ecc.
Pertanto il panettiere Ratti avrebbe commesso una semplice colpa di disattenzione: il crimine l'avrebbero perpetrato i suoi operai, gli infami. Inoltre, il crimine stesso sarebbe molto veniale: peso e forma del pane; non spreco di farina, non privilegiato consumo di pane bianco mentre la maggioranza, anche i bambini e i moribondi, deve consumare il pane nero e legnoso. E quando il lettore ha sorriso dell'accusa, pensando con pietà profonda al povero martire Carlo Ratti, vittima del fiscalismo giudiziario, il «Momento» continua:
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