Il cav. Ratti sostenne in giudizio che quel pane, sequestratogli dagli agenti in una cesta a parte, nella sala da pranzo, era stato confezionato per sua moglie ammalata e dimostrò, col conforto di testimonianze inoppugnabili, fra cui il dott. comm. Bellosta, che realmente sua moglie necessitava di quel pane speciale. Ma il Magistrato non poté accogliere le giustificazioni, opponendosi l'esplicito disposto dell'art. 60 del Codice penale, che punisce anche la semplice negligenza ed inosservanza nei rapporti dei propri dipendenti.
Saltano di nuovo fuori i dipendenti, che sembravano essere stati messi da parte dopo l'ammissione della necessità familiare, non certamente ignorata dal Ratti. Si tace che il pane bianco sequestrato pesava 720 grammi, quantità un tantino esagerata per una signora ammalata di stomaco. Non si fa notare che la polizia non fece la sorpresa appena commesso il primo crimine, ma che, trattandosi di un assessore, dovette ben essere longanime ed intervenire quando la misura era colma e lo scandalo dilagava.
L'assessore Carlo Ratti, dalla narrazione del «Momento», dopo le opportune e furbesche erosioni dei fatti, appare un poveraccio, che ha peccato per soverchio amore della famiglia. E la famiglia è uno dei puntelli della società, come a tutti è noto. E per il tripode bronzeo della società i clericali sono disposti a tutto: anche a rodere la verità, a rodere la morale, cosí come l'assessore Ratti rodeva il suo dovere di magistrato per conguagliarlo alla sua mentalità di bottegaio.
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