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      (4 giugno 1917).
     
     
      DE PROFUNDIS
     
      Teofilo Rossi se ne va dal seggio sindacale. «Aria ai monti» si ritira dalla vita pubblica. È impossibile fermare l'irresistibile marcia di una lacrima furtiva.
      Teofilo Rossi era un documento prezioso. Il misterioso svilupparsi delle forze naturali e spirituali, che determinano gli avvenimenti umani, avevano in Teofilo Rossi cumulato le caratteristiche negative di una intera età di crisi e di corruzione. Teofilo Rossi era il cliché di 3 milioni e mezzo d'italiani: di quella parte di italiani che nell'aggregato sociale «Italia» costituiscono il decimo sommerso, la palla al piede, la zavorra ingombrante. Industriale, uomo politico, uomo di cultura. Come uomo di cultura era dantista, cioè largamente infetto di quella lebbra letteraria che è stata negli ultimi cinquant'anni il dantismo, l'arcadia melensa e smidollata che al neo e alla cipria aveva sostituito Dante, alla canzonetta sul neo e sulla cipria aveva sostituito la conferenza a rotazione su un canto della Divina commedia. Teofilo Rossi aveva imparato tutta la Divina commedia a memoria: la sua particolare forma di retorica erano le citazioni dantesche: al pensiero aveva sostituito la citazione dantesca; alla sincerità aveva sostituito la citazione dantesca: l'intelligenza di Teofilo Rossi non era che un rimario della Divina commedia. Come industriale avrebbe potuto dedicarsi alla fabbricazione delle casse da morto, delle corone funebri, avrebbe potuto essere un esportatore di birilli o di bocce; fu industriale dell'alcool, si dedicò all'industria dell'incretinimento e del pervertimento nazionale per mezzo dell'alcool.


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Sotto la mole
1916-1920
di Antonio Gramsci
pagine 742

   





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