[Sei righe censurate].
(16 novembre 1918).
PROPOSTA AI CAPOCOMICI
I capocomici delle compagnie nazionali e dialettali che agiscono nei teatri cittadini dovrebbero ritornare ai costumi del buon tempo antico e completare gli spettacoli con una farsa. La pace è ritornata, l'influenza decresce, il «popolo» ha riacquistato il diritto di divertirsi, di spianare le facce immusonite per il cumulo di tanti mali.
Consigliamo ai capocomici una farsa: l'Epidemia, di Ottavio Mirbeau. È una farsa, ma è anche una moralità. È scritta da un antiborghese, ma appunto perciò può essere molto proficua alla borghesia. In questo momento essa è ritornata di attualità. Non perché un'epidemia di tifo minacci di far strage, brillante seconda dell'epidemia spagnola, ma perché la buona borghesia torinese ragiona in confronto di avvenimenti recenti, presenti e che possono diventare endemici nel futuro prossimo, proprio come i buoni borghesi della farsa di Ottavio Mirbeau.
Un grasso e pacifico droghiere descrive un episodio cui ha assistito in via Roma; la sua faccia cicciosa irradia gioia tripudiante. Conclude: «Non mi son mai divertito tanto in vita mia!» Questo cittadino torinese pareva proprio scaturito vivo, parlante, trasudante, dalle pagine del Mirbeau.
Nell'Epidemia si assiste ad una seduta del consiglio comunale di una città marittima francese. Nell'arsenale si è sviluppata la febbre tifoidea: i soldati muoiono; il prefetto marittimo protesta presso il municipio che non sa mai decidersi a risanare le caserme e costruirvi delle buone condutture d'acqua potabile.
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