In tutta l'opera sua Platone considera sempre l'artista come un incosciente, invasato dalle Muse, che nulla sa della bontà e della verità di quanto dice. Nelle Leggi (719 a. C.) afferma essere opinione da tutti accolta, che il poeta, quando siede sul tripode delle Muse, è fuori di senno e paragonabile ad una fonte che lasci sgorgare lo zampillo d'acqua, che continuamente esce; ed anche sostiene (801 a. C.) che non tutti i poeti sono atti a discernere il buono dal cattivo. Giudizi severissimi sulla grande arte greca si trovano continuamente nella Repubblica e nelle Leggi, tali che hanno riscontro solo nella critica che all'arte moderna fece L. Tolstoi.
I poeti, come tutti quelli che sono fuori di senno, secondo lui, debbono essere sottoposti a tutela; quindi ai legislatori il còmpito di fissare la materia che l'artista deve trattare ed i cànoni d'arte che nessuno, per quanto valente, possa violare; chè, anzi, quanto maggiore è la bellezza artistica della loro creazione, altrettanto grande è la responsabilità morale degli autori ed il pericolo che essi giungano, glorificando le umane passioni, ad insinuarle, a suggestionarle, col mezzo dell'arte, nell'animo degli uomini.
Alludendo appunto a questo passo di Platone, Cicerone nella De divin. ricorda(102) che tanto Platone quanto Democrito hanno dichiarato nessun grande poeta poter esser tale senza pazzia; "chiamiamola pure con Platone pazzia - egli poi commenta -, a patto però che una tale pazzia sia lodabile quanto è lodata da Platone nel Fedro".
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