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      Or tu medesmovanne, Ulisse, e trascelto, io tel comando,
      de' primi achivi giovinetti il fiore,
      reca i doni promessi e le donzelle;
      e Taltìbio mi cerchi e m'apparecchiun cinghial da svenarsi a Giove e al Sole.
      Inclito Atride, gli rispose Achille,
      serbar si denno queste cose al tempoche dall'armi avrem posa, e che non tanto
      sdegno m'infiammi. Giacciono squarciatinella polve gli eroi che spense Ettorre
      favorito da Giove, e voi ne fateressa di cibo? Io, qual si trova, all'armi
      senza ritardo il campo esorterei,
      e vendicato l'onor nostro, allegrecene abbondanti appresterei la sera.
      Non verrà cibo al labbro mio né beva,
      s'ulto pria non vedrò l'estinto amico.
      D'acuto acciar trafitto egli mi giacenella tenda co' piè volti all'uscita,
      e gli fan cerchio i suoi compagni in pianto.
      Non altro è dunque il mio pensier che stragee sangue, e il cupo di chi muor sospiro.
      E Ulisse a lui: Fortissimo Pelìde,
      tu nell'asta me vinci, io te nel senno,
      perché pria nacqui, e più imparai. Fa dunquedi quetarti al mio detto. Umano core
      presto si sazia di conflitti in cuimolto miete l'acciar, poco raccoglie
      il mietitor, se Giove, arbitro sommodi nostre guerre, le bilance inclina.
      Pianger col ventre non si dee gli estinti;
      e qual respiro il pianto avrìa se millefa caderne la Parca ogni momento?
      Intero un sole al lagrimar si doni,
      poi con coraggio, chi morì s'intombi:
      e noi che vivi della mischia uscimmoconfortiamci di cibo, onde più fieri
      d'invitto ferro ricoperti il pettoalla pugna tornar, senza che sia
      mestier novello incitamento.


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Iliade
di Homerus (Omero)
pagine 483

   





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