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      Ne fu turbata e seccata. Non temeva di nulla ma avrebbe amato per la propria e la tranquillità del marito (che a volte sapeva essere geloso) di avere un medico meno giovane e soprattutto meno innamorato.
      Il giovine medico cominciò anche a venire troppo di frequente. Un giorno a lei parve leggere negli occhi di Paolo quasi una intenzione di aggressione. Ne fu spaventata un po'. Nel corso della conversazione e forse neppure troppo a proposito trovò il modo di proclamare: «Io amo mio marito». I suoi occhi azzurri si fissavano freddi sul medico. Parevano due pezzettini di piastra dura e lucente. Il desiderio di costui la offendeva. Ripeté anche: «Io amo mio marito». Ad ogni modo si capiva ch'ella non dubitava ci fossero delle ragioni che ai terzi poteva far dubitare di tale suo amore, altrimenti non ci avrebbe messa tanta enfasi.
      Paolo piegò il capo scorato. Egli era già arrivato a quel punto della passione nel quale ogni alterigia è definitivamente smessa. Oltre che la bellezza egli amava in Amelia la virtù. Oh! se sua moglie fosse stata così (egli si diceva) egli avrebbe passata la vita ai suoi ginocchi. Il lusso di quel palazzo faceva risaltare meglio la modestia di Amelia. Come si capiva che l'unica cosa di quel palazzo cui ella fosse attaccata era quella sua figliuola Donata. Quella stessa Donata era la prova vivente dell'eccellenza dell'organismo della madre. Quell'organismo, crogiuolo delicato e purificante, aveva annullata la tabe del padre!
      «Signora!» egli disse e non volle rinunciare al godimento di parlare del proprio amore.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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