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      «Signora! Io amo e stimo anche vostro marito».
      Gli occhi azzurri s'addolcirono.
      «Permettete» proseguì egli dopo una lieve esitazione, «che io continui le mie cure a Donata. Io spero che la mia presenza non vi offenda tanto da costringermi ad allontanarmi da questa casa. Se avessi a recarvi dispiacere l'abbandonerei da me». Ella disse con dolcezza: «Vi sono anzi riconoscente delle vostre cure per Donata e vi prego di continuargliele».
      Egli non sentì che la dolcezza che c'era in quella voce e non il senso delle parole. Ebbe il torto di afferrarle una mano; ella gliela tolse con disdegno. Si separarono lui umile, supplichevole, essa con evidente premura di vederlo fuori della porta. Ed essa ritornando alle sue solite occupazioni pensava di dover lagnarsi del contegno di Paolo col padre suo. Il disdegno le arcuava le belle labbra. Lui invece scendeva le scale esitante. Certo sarebbe stato raggiunto da una letterina di congedo. Non avrebbe fatte più quelle scale. E il suo dolore era non di aver osato troppo ma di aver osato troppo poco. Della clientela o di Donata gl'importava poco. Non avrebbe più avuta l'occasione di dire le tante parole che gli erano suggerite dalla sua passione. Prima tutto dedicato ai suoi studii, poi legato ad una donna che non amava, Paolo, in amore era anche più giovine di quanto lo fosse in età. Egli avrebbe voluto gli fosse stato permesso di baciare il lembo del vestito di Amelia, o, tutt'al più la sua mano. Di sera da quel ragazzo che era amava passare sotto il palazzo o fermarvisi di faccia a fissare le finestre chiuse.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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