Avevano già sofferto e goduto perché la vita di pochi giorni è più lunga di quanto possa sembrare a chi la subì per anni, e sapevano molto, visto che una parte della grande esperienza l'avevano portata con sé dall'uovo. Infatti appena arrivati alla luce, avevano saputo che le cose bisognava esaminarle bene prima con un occhio eppoi con l'altro per vedere se si dovevano mangiare o guardarsene.
E parlarono del mondo e della sua vastità, con quegli alberi e quelle siepi che lo chiudevano, e quella casa tanto vasta ed alta. Tutte cose che si vedevano già, ma si vedevano meglio parlandone.
Però uno di loro, dalla lanuggine gialla, satollo - perciò disoccupato - non s'accontentò di parlare delle cose che si vedevano, ma trasse dal tepore del sole un ricordo che subito disse: - Certamente noi stiamo bene perché c'è il sole, ma ho saputo che a questo mondo si può stare anche meglio, ciò che molto mi dispiace, e ve ne le dico perché dispiaccia anche a voi. La figliuola del contadino disse che noi siamo tapini perché ci manca la madre. Lo disse con un accento di sì forte compassione ch'io dovetti piangere.
Un altro più bianco e di qualche ora più giovine del primo, per cui ricordava ancora con gratitudine l'atmosfera dolce da cui era nato, protestò: - Noi una madre l'abbiamo avuta. È quell'armadietto sempre caldo, anche quando fa il freddo più intenso, da cui escono i pulcini belli e fatti.
Il giallo che da tempo portava incise nell'animo le parole della contadina, e aveva perciò avuto il tempo di gonfiarle sognando di quella madre fino a figurarsela grande come tutto il giardino e buona come il becchime, esclamò, con un disprezzo destinato tanto al suo interlocutore quanto alla madre di cui costui parlava: - Se si trattasse di una madre morta, tutti l'avrebbero.
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