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      Il figliuolo era agli studi a Padova. Poco appresso nascosti alla vista di chi passava la strada maestra c'erano i vasti stallaggi e più lontano ancora, in mezzo ai campi una vasta casa colonica, vecchia decrepita quella.
      ARGO E IL SUO PADRONEIl dottore m'aveva esiliato lassù: Dovevo restare per un anno intero nell'alta montagna movendomi quando il tempo lo concedeva e riposare quando lo imponeva. Idea geniale che però non mi fu utile. Il movimento che l'estate aveva concesso abbondantemente non m'aveva fatto bene ed il riposo impostomi dalle prime bufere e che dapprima mi parve gradevole, fu subito eccessivo, noioso, snervante. Poi la noia mi spinse ad un'avventura con una donna del rude paese. Finì - come si vedrà - male, e alla noia s'associò un rancore per tutto il paese che doveva servirmi di medicina.
      La vecchia Anna, la mia sola compagnia nella casetta riparata da una rupe, essa sì, faceva la cura intera. Talvolta dimenticava di fare il mio letto. Io la guardavo con invidia e non sapevo arrabbiarmi. Quando fingevo di perdere la pazienza essa s'indignava: «Non ho che due braccia!» gridava, e queste due braccia piccole e grassoccie andavano solo ora in attività per alzarsi al cielo in segno di protesta.
      Io me ne andavo rallegrato di vedere che il riposo - per lei almeno - non era poi una cosa tanto cattiva.
      Nella mia stanza da letto leggevo il giornale da capo a fondo compresi gli avvisi. Interrompevo spesso la noiosa lettura per consumare del combustibile nella stufa di ferro che tenevo sempre rossa.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





Padova Dovevo Anna