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      Perché credo che fra i fanti non m'avrebbero ammesso».
      Egli rise: «Certo di generali ne abbiamo avuto di tutte le qualità».
      Era meno cattivo. Meno cattivo di me perché io durante la notte avevo preparato tutte le parole che dovevo dirgli. E soggiunsi per nulla commosso dalla sua bonarietà: «Non mi sarebbe bastata neppur la carica di sottotenente perché anche per quella carica occorrono buone gambe: Per avanzare e anche per scappare».
      Egli non sentì la botta. Si fece triste. Pensava ad una ritirata. Anche lui era un uomo lento. Il giorno appresso mi disse: «Quelli che nulla sanno della guerra credono che il buon ufficiale si veda nell'organizzazione dell'attacco. Io credo di essere stato utile alla mia patria, utile nel senso di aver diffuso la mia fiducia a molti, durante la ritirata».
      «È questione di gambe» dissi io implacabile. E allora egli si arrabbiò. Ma non contro di me. L'aveva con altri. Comandanti varii che s'erano avvantaggiati dei suoi meriti. Eppoi l'aveva con gente anche più lontana, coi morti cioè. Quelli erano gli eroi e si proclamavano tali tanto volentieri perché costavano poco, una tomba e qualche scritta. I vivi che avevano fatto tanto venivano negletti e se volevano vivere dovevano andar a lavorare per il signor Zeno Cosini.
      Non sentii subito la botta e soltanto il giorno appresso gli dissi: «Sarebbe bella che toccasse proprio al povero Zeno Cosini di pagare gli eroi che seppero sopravvivere». Egli rise con disprezzo. Io alzai la voce: «Lei ha combattuto per molti altri.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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