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      Trattai direttamente con l'Olivi.
      Non mi parve mica imbarazzato. Trattava quell'affare con la stessa disinvoltura con cui avrebbe ceduto o rifiutato di cedere una partita di merce. Ed invece io non sapevo arrivare ad una disinvoltura simile. Sorridevo, pensavo, discutevo, ma sicuramente si vedeva ch'ero come un cane che quando avvicina un nemico s'irrigidisce cacciando la coda fra le gambe. E mi mancava il fiato sentendo l'importanza del momento. In quel momento vedendolo tanto sicuramente disinvolto in un affare simile e sentendo me infelice e malsicuro intuii la superiorità sua e decisi di conservarlo nei miei affari a tutti i costi.
      Proposi che a me fosse assegnato un onorario uguale al suo e si dividesse poi il beneficio oppure che si trascurasse di fissare un onorario qualunque sia a me che a lui e si provvedesse alla divisione dell'utile. A me pareva di aver fatta una proposta sola ma non all'Olivi. Prima mi raccontò ch'egli stava per ammogliarsi e che se avesse accettato la mia proposta poteva vedere dal bilancio precedente che i denari non gli sarebbero bastati per vivere onorevolmente con la sua famiglia: Egli abbisognava proprio della sua paga intera e della metà dell'utile non attenuato da una mia paga.
      «Ma» dissi io «se il mio lavoro non ha da essere retribuito io neppure lavorerò. Verrò qui solamente di tempo in tempo come sorvegliante ma non toccherò una penna».
      Ipocritamente l'Olivi disse: «Mi dispiace di dover rinunziare alla sua collaborazione ma non si può fare altrimenti».


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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