Alla soglia si fermò e con la voce malferma ad onta che fosse sempre appoggiata al naso, mi disse: «Già, è certo che io in cotesto affare non c'entro. Parlavo solo perché l'Olivi me ne aveva pregato, eppoi anche nel tuo interesse».
Io sempre sdraiato nella mia poltrona lo guardavo stupito cercando di trovare fra le parole che gli avevo detto quale avesse potuto ferirlo. Ma non la trovai anche perché egli mi confuse esagerando nelle buone forme e mi disse ancora che ci saremmo rivisti a cena per parlare di tutt'altre cose e mai più di quell'affare. Mai più? Non era un eccesso di dire così? Erano troppe le cose cui in un solo istante dovevo pensare e perciò la parola offensiva che doveva essermi uscita di bocca non la trovai più. Doveva essere stato ferito più dal suono che dal senso delle parole.
Poi seguirono delle ore di un affanno strano. Dovevo prima di tutto avvisare Augusta di non dire a Valentino ch'io da molte ore non m'ero mosso di casa perché egli altrimenti avrebbe saputo ch'io quella sera non avrei potuto aver visto l'Olivi. Ma come fare? Augusta si trovava certamente nel salone con Valentino ed Antonia. Poi io dovevo quella sera stessa trovare l'Olivi e subito mettermi d'accordo con lui prima ch'egli rivedesse Valentino. Così, in piena angoscia, pronto per uscire con indosso il cappello ed il cappotto d'inverno nella casa come al solito per volere di Augusta surriscaldata, rimasi per qualche minuto alla porta del mio studio irresoluto se correre nel salone a chiamare Augusta o andare al Tergesteo ove sapevo di poter ancora trovare l'Olivi che non si staccava dagli affari - in questo simile al padre suo - fino alle nove di sera.
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