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      E non lo dimentico neppure perché vi si associò un po' di rancore. Poco prima della liquidazione di quest'affare era ritornato dalla guerra il giovine Olivi. Il giovine occhialuto era tenente e aveva il petto fregiato da qualche medaglia. Accettò senz'altro di riassumere nel mio ufficio il suo posto antico, alle mie dirette dipendenze. Io subito m'abituai ad un posto molto comodo di regnante che non governa. E presto dei miei affari non seppi più niente. Leggi e decreti piovevano ogni giorno in Italia scritti con uno stile impossibile: Di ben preciso non c'era che il numero che designa il nostro re. Lasciai che di bolli (fu allora che la nazione si mise a leccare tanti bolli) e documenti si occupasse il solo Olivi. Poi quell'uomo mi divenne molto antipatico e perciò evitai quell'ufficio. Parlava molto dei suoi meriti e delle sue sofferenze di guerra e non trascurava alcun'opportunità per rimproverare a me di non aver collaborato alla vittoria.
      Parlando sempre del sapone e delle corone rincasate troppo tardi, io dissi un giorno: «Ma ci sarà qualche cosa da fare contro quei viennesi? La guerra non l'abbiamo vinta noi?» Egli si mise a ridermi in faccia. Ed io sono convinto che per provarmi che la guerra io non l'avevo vinta egli non fece alcun passo per costringere gli Austriaci a indennizzarmi del mio sapone.
      Del resto egli continua con tutta la sua onestà ad attendere ai miei affari. Ama anche mio figlio Alfio il quale quando aveva cessato di frequentare il ginnasio andò qualche volta nel mio ufficio a farvi la pratica.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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