Vidi subito una distrazione in lui, l'incapacità di continuar a far oggi quello che aveva iniziato il giorno prima, delle qualità insomma che io conoscevo e che in me erano state curate radicalmente dal grande uragano. Pensai che sarei stato attento di non cadere nei difetti di mio padre e che avrei saputo trattare altrimenti mio figlio. Ma Dio mio! Guai se a mio padre fosse toccato un figlio simile. Io ero tanto meglio preparato di lui dalla mia cultura e dalla mia vita attiva a sopportare delle novità eppure non sapevo come guardarlo, come sopportarlo. Io gli lasciavo fare tutto quello che voleva. Abbandonò il Ginnasio subito dopo la riforma Gentile che poco gli confaceva ed io non protestai con una sola parola. Gli dissi solamente che così egli perdeva la possibilità di acquistare un rango accademico con tono un po' commosso; perdevo anch'io una speranza. Gli parve un'intromissione inammissibile e disse che fra me e lui c'era non solo una differenza d'età ma molto di più. La guerra ci divideva. Ci trovavamo oramai in un mondo nuovo cui io non appartenevo perché nato prima della guerra. A me pareva di essere nel caso d'intendere tutto a questo mondo e al sentirmi dare dell'imbecille m'arrabbiai.
A dire il vero il nostro dissidio fu fomentato da altri. Scoppiò tale dissidio una domenica dopo pranzo. Eravamo riuniti insieme mia moglie, mia figlia Antonia, Valentino e Carlo, il figlio di Ada e Guido che studiava la medicina a Bologna e si trovava da noi per le vacanze. Cominciò Carlo che voleva dissuadere Alfio dall'abbandonare il Liceo asserendo con semplicità che il Ginnasio e Liceo erano alquanto grevi ma che poi l'Università era più gradevole.
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