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      Non è bello ed io lo so perché altri me lo dissero. Ma io ed Augusta ammiriamo la sua faccia bianca e dolce. Già è tutt'altra cosa conoscere intimamente un individuo che vederlo passare per una volta tanto con le sue imperfezioni evidenti. Noi sapevamo la forza e la debolezza di Alfio. Le sue gambe lunghe portavano non solo delle forme. E parlavamo spesso con Augusta della magnifica espressione degli occhi intensamente azzurri di Alfio di cui uno era un po' fuori di posto ma non tanto come quello di sua madre, degli occhi azzurri che domandavano aiuto e appoggio poverini, fuori di posto costretti a uno sforzo per vedere anche quando la sua bocca inventava delle brutte parole, tolte dai libri di Marx ch'egli non aveva letti e in cui non credeva.
      Mi parve urgesse fare la pace con lui. Un giorno mi sentii peggio del solito: Mi minacciava un colpo, una di quelle avventure che tolgono la parola, l'udito, la vista, quando non si portano via l'intera vita. Il colpo s'annunciava per certi rumori negli orecchi. Se una volta m'era stata constatata una pressione di 230 mm.! E mi commossi all'immaginare il povero Alfio davanti al mio cadavere mormorare come feci io a suo tempo: «Ecco, oramai, la mia vita è finita».
      Andai da lui di sera non appena seppi ch'era rincasato e si vestiva per andare al caffè. Aveva uno studiolo all'altro lato della casa, povero di luce, ma messo da Augusta civettuolmente.
      «Si può?» domandai esitante dopo di aver aperto a metà la porta. Vidi subito Alfio dinanzi allo specchio che si annodava la cravatta e si guardava di sotto in su.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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