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      E il periodo aggradevole delle mie relazione con Alfio continuò per lungo tempo. Un po' turbato dal fatto che Alfio un giorno volle regalarmi un altro suo lavoro che io non volli appendere alla parete della mia stanza. Lo misi in un cassetto ed assicurai Alfio che ogni giorno lo guardavo. Non era vero: Io non potevo passare il mio tempo a popolare le casette sbilenche di mio figlio. Eppoi non c'era scopo di lavorarci intorno tanto, perché m'era poi interdetto di dire esattamente il mio parere e m'era anzi imposto di ripetere quello che ne diceva Alfio. Perciò era più facile di non guardare i suoi quadri.
      Il periodo felice finì inaspettatamente. Proprio in un momento di grande gioia e proprio quando non me lo sarei aspettato. Avevo invitato a pranzo un mio vecchio amico, certo Cima che non avevo visto da quasi mezzo secolo. Nella vecchiaia tali incontri sono come in un libro stampato le parole messe in corsivo; hanno un rilievo tutto proprio. Per varie ragioni non avevo mai dimenticato Cima. Era un meridionale latifondista ch'era venuto giovinetto a Trieste a studiarvi il tedesco. Erano errori che si facevano allora nell'Italia Meridionale e il giovinetto apprese con facilità il triestino. Impiegò poi le sue giornate a fare la corte alle donne e andare a caccia e a pesca. Era più ricco allora di quanto lo fosse stato mai più nel corso della sua vita.
      Non potevo averlo dimenticato perché aveva rappresentato nella mia vita varii insuccessi ma anche un successo. Ed io che nel giudizio sulla mia vita intendo di essere severamente oggettivo, non dimenticai né gli uni né l'altro.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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