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      Dovetti poi spiegare ad Augusta la ragione della mia assenza e Augusta la riferì ad Antonietta la quale, poi, invece di attendere ch'io andassi a piangere con lei, trovò il buon pretesto per raggiungermi e ricoprirmi del suo lutto. Fu una tragedia che a lei, certo, servì di sfogo utilissimo ma lasciò me come uno straccio sconvolto in modo che non sapevo più dove avessi la testa e dove i piedi. Si gettò alle mie ginocchia, tutta nera e coperta di veli e piangendo e urlando mi spiegò che la vecchiaia nella quale io prosperavo aveva subito ucciso Valentino. Evidentemente per questa ragione si poteva anche dire che la vecchiaia mia non fosse disonorevole e fosse un'onta quella di Valentino.
      Io fui ancora una volta commosso come se Valentino fosse morto in quel momento. La sollevai, l'abbracciai e stetti poi con lei per varii giorni desideroso di aiutare quella povera bambina, tanto innocente e disgraziata. Ebbi anzi proprio una rinascita di viva paternità e scrutavo ansiosamente nel mio animo per nettarmi dal rimorso di averla ferita, il dolore e la compassione. Mai amai tanto come in quei giorni il povero Valentino tanto disgraziato che dopo di esser vissuto morto a mezzo, ora era morto proprio del tutto, ma tanto prima che dopo aveva saputo destare un tale vivo affetto.
      La scena che non dimenticai più si svolse una sera, dopo cena, tardi. Eravamo nei primi giorni del settembre. Faceva tuttavia un grande caldo ed Augusta, Antonia ed io eravamo sotto la pergola dinanzi alla mia villa, là donde una volta si vedeva la città e il porto ed ora solo qualche barlume del mare lontano, del resto coperto dalle squallide grandi caserme.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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