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      Dopo di aver data la sua originale teoria della vecchiaia onorata e di quella disonorevole, Antonia continuava a singhiozzare, il capo abbandonato sulla mia spalla. Il suo pianto era un'arma molto migliore della sua parola. Anche Augusta piangeva ma io sapevo ch'essa si trovava molto lontana da noi. Essa non piangeva Valentino come noi due. Poco prima le avevo ancora una volta spiegato come Antonia ci offendesse ambedue e turbasse i miei ultimi anni di vita. Essa non poteva ancora accorgersi ch'io m'ero ora riavvicinato ad Antonia e non trovavo il modo di avvisarnela. Essa non piangeva nient'altro che il dissidio in sé. Così aveva pianto non per la pittura di Alfio ma per il dissidio fra me e lui ch'essa aveva provocato. Odiava il dissidio, il dissidio che fra gli umani e specie fra padri e figli era inevitabile e che lei aveva saputo eliminare dalla numerosa compagnia dei suoi cani, gatti e uccelli, bestie cui dedicava la miglior parte della sua vita.
      Un ubbriacone passava cantando solitario per il viottolo adiacente alla mia villa, che conduce alla montagna. Io conoscevo quell'ubbriacone. Lo avevo spiato tante volte. Il vino vivificava in lui l'istinto musicale ed egli vi si abbandonava intero procedendo senza malizia e senza fretta. Cantava solo due vecchie canzoncine, un repertorio molto ristretto, introducendovi delle lievi variazioni, tanto lievi che la sua ispirazione non poteva dirsi disordinata. Neppure la sua voce era disordinata, ma mite, debole, molto stanca. Com'era buono, contento del vino tracannato.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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