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      È orfana. Si trova in casa nostra da quattro anni e non ha che 18 anni. È di quelle bambine che, arrivate alla maturità durante la guerra non ebbero bisogno di allungare le gonne corte che altre volte non appartenevano che alle fanciulle. Non era una dotta e non faceva come me delle scoperte, ma forse perché si trovava più vicina al bambino essa sopportava meglio le sue chiacchiere. E dalla mia stanza da cui l'ostinato bambino non voleva allontanarsi di troppo, sentivo che la vocina infantile che raccontava, era interrotta di tempo in tempo dallo scoppio di riso fresco, sincero, irrefrenabile della giovinetta.
      Ma poi fra me e Umbertino si arrivò ad un accordo. Ci vedevamo in casa solo a pranzo ma egli usciva con me ogni giorno per un'ora prima di colazione. Ciò corrispondeva anche ad una prescrizione che m'era stata fatta dal dottor Raulli di muovermi ogni giorno per un'oretta. Quando aveva da camminare Umbertino non raccontava delle storie ma procedeva mettendo la sua cara soffice manina nella mia grossa e ruvida. E dovevo io stare attento di tener bene afferrata quella manina perché Umbertino frequentemente incespicava perché egli vedeva molte cose, un muro lontano e mezzo distrutto, e i carrozzoni del tranvai col loro bravo numero ch'egli sapeva leggere e il treno o vicino o lontano con la macchina sbuffante, ma non gl'impedimenti, non gli acquitrinii in cui egli avrebbe sprofondati i piedini se io non fossi stato attento.
      Ma quante cose vedeva quel bambino! Sempre le stesse perché per la debolezza dei miei polmoni le gite in questa città nella quale quando si va in campagna si va subito in montagna non potevano essere molto lunghe.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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