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      Ebbe una risoluzione. Disparve da una porta del cortile e ne riuscì con un mucchio di fieno in mano. Il cavallo annusò e quando l'uomo si ritirò verso quella stessa porta, lo seguì docile allungato dalla fame e scomparve dietro l'uomo. Umbertino urlava: «Non seguirlo! Sei uno stupido! Ti prenderà». Ed ogni volta che poi passammo per quel posto egli guardò quel cortile: «Il cortile del cavallo stupido». Ma non rivedemmo mai più né il cavallo né l'uomo. E Umbertino pensava: "Forse se la cosa si ripeté, il cavallo non si lasciò più prendere e arrivò a dare qualche calcio e a quest'ora va libero, lontano lontano su qualche pascolo".
      Chissà perché mi dà tanta gioia assistere alle fanciullaggini di Umbertino? Adesso che sto raccogliendomi su questa carta, causa Umbertino che vedo camminarmi accanto col suo piccolo passo malsicuro, analizzo come la gioia irragionevole sempre, venga irragionevolmente distribuita fra gli umani.
      Arriva abbondante e quella lì - unica - abbastanza ragionevole ai bimbi che nulla intendono. Poi quando nell'infanzia si comincia a studiare la macchina colossale che ci è consegnata, la vita, i binari che finiscono dove cominciano, non vediamo ancora la relazione che c'è fra noi e lei e la studiamo con oggettività e gioia interrotta da lampi di grande spavento. Terribile è l'adolescenza perché si comincia allora a scoprire che la macchina è fatta per addentarci e non si vede dove in mezzo a tanti ordigni si possa mettere sicuri il piede. Nella mia vita la serenità arrivò tardi forse perché - causa la mia malattia - la mia adolescenza si prolungò oltre il limite normale, mentre intorno a me i miei coetanei ci vivevano già senza vederla come il mugnaio che dorme sereno accanto al suo mulino che gira stridendo.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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