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      Dunque alle esagerazioni nella mia famiglia aveva collaborato anche la famiglia Malfenti.
      E un bel giorno volli provarlo ad Augusta. Scoprii per la prima volta come essa pensava a me. Sorridendo mitemente e affettuosamente me lo confessò. Io somigliavo ad Alfio. Fisicamente e anche moralmente. Le donne sono sempre povere di parole precise. Essa non sapeva dare la prova di quanto sentiva. Ma vedeva, sentiva e soprattutto voleva bene a lui e anche a me, nella stessa maniera. Poi anche Antonietta mi somigliava. E non sapeva darne la prova. «Ma c'è qualche cosa fra di voi di simile. Qualche cosa che a me non piace, allo stesso modo non piace, ma che in te destò una mia compassione, un dispiacere, per te, per te, sai, e in lei invece un po' d'ira».
      Si correva in automobile verso Miramare. Il sole era tramontato da poco ed era una beatitudine posare gli occhi sull'immensa distesa di acqua su cui si baloccavano miti colori riposanti che non sembravano trasformati da quelli abbacinanti che li avevano preceduti. Io m'abbandonai a tale riposo e cercai di dimenticare la mite donna che mi stava accanto e che m'aveva indovinato meglio di quanto io e, come spero, lei stessa lo sapessimo.
      E vidi per un momento i caratteri umani ereditarsi l'uno dall'altro, perfettamente deformi ma sempre trasparentemente identici in modo che persino Augusta se ne potesse accorgere con un'ispirazione non basata sulla ragione. Ma poi mi ribellai: A che cosa serviva la legge dell'eredità se tutto poteva risultare da tutto?


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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