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      Disse arrossendo che ci era venuta incontro perché la sua casa giaceva su una viuzza nella quale non c'era accesso per l'automobile.
      Augusta avrebbe voluto insistere: «Ma io avrei voluto conoscere tua madre».
      «Eccola là» disse Renata, rossa, rossa, col suo solito riso un po' spezzato.
      Ad un cenno di Renata una vecchietta che stava seduta solitaria su un banco sotto a un grande ippocastano, si levò e s'avvicinò a noi. Era evidentemente messa di festa, molto all'antica, le gonne lunghe, il fazzoletto di colore annodato elegantemente sulla testa. Ma tutto, lei compresa grigia e sdentata, molto sbiadito. Volle baciare la mano ad Augusta. Parlava quasi perfetto il friulano e né io né Augusta comprendemmo niente di quei suoni che uscivano scomposti ora a destra ora a sinistra di quella bocca mancante degli organi che regolano il suono.
      L'intervento di Fortunato, il nostro chauffeur rese l'intervista più lieta. Egli era di quei paesi e disse alla vecchia, in friulano, delle cose che la fecero sganasciare dal ridere. Il riso la costringeva a piegarsi in due. Eccessivo, forse per celare l'imbarazzo che in lei tuttavia persisteva. Augusta le consegnò i doni che aveva portati e Renata la indusse a lasciarci e andare a casa ove c'era un uomo, il fratello, che presto sarebbe ritornato dal lavoro a domandare il suo pasto. La vecchia protestò: Il pasto era già pronto dalla mattina, pur già avviandosi per obbedire alla figliuola.
      «Stimo io» rise Fortunato, «la polenta sa aspettare. È il cibo più paziente del mondo».


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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