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      Era curioso poi come prima d'intendere studiasse anche dei dettagli privi d'importanza per lui. Veniva per esempio incaricato di dire qualche cosa ad Augusta quando sarebbe andato a prenderla con l'automobile da una sua amica. «Io dunque» riepilogava Fortunato «ho da essere alle 6 alla porta di casa Guggenheim e quando la signora Augusta scenderà...». Faceva un'analisi approfondita del movimento di tutti. Ed io, spazientito, urlavo: «Ma lascia che la signora scenda da sola». Egli si scoteva tutto come se stesse per perdere l'equilibrio e allora capivo che bisognava lasciarlo parlare, dire tutte le parole che occorrevano per ordinare il suo pensiero.
      E alla sera, coricandomi, dicevo ad Augusta: «Come saprà vivere quella bambina con quell'uomo tanto poco intelligente?».
      E Augusta rispondeva: «Ma io non credo che l'intelligenza occorra per la felicità».
      Ma il povero Fortunato correva un bel rischio. Noi si aveva deciso di tenere più vicina a noi che fosse possibile la piccola inserviente. Io proposi una camera di più che sarebbe stata utile in avvenire per i bambini che potrebbero venire. Ma Augusta mi raccontò una sera ch'essi avevano deciso di non aver dei bambini. Accettavano però una camera di più... per il grammofono, una cosa che gridava solo quand'era caricata.
      E poche sere dopo mi raccontò che quella sfacciatella di Renata aveva dichiarato che se avessero sentito il bisogno di avere dei bambini se li sarebbe fatti fare da qualcuno un po' più svelto di Fortunato.
      Ridemmo molto io e Augusta.


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I racconti
di Italo Svevo
pagine 387

   





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