Si fermò del tutto per frugare una tasca dei suoi pantaloni. Ne trasse una scatola d'oro da sigarette; premette un bottoncino e la scatola si spalancò. «Ne vuoi una?» domandò. «Sono denicotinizzate». Io accettai e mi fermai anch'io per accenderla. Egli era fermo solo per ritrovare il posto alla scatola nella sua saccoccia. Ed io pensai: "Poteva darmi un rivale che fosse più degno di me". Infatti io mi muovevo meglio di lui tanto sull'erta che in pianura. In suo confronto io ero addirittura un ragazzo. Fumava anche delle sigarette denicotinizzate prive di alcun sapore. Come ero più virile io che avevo sempre tentato di non fumare ma alla vigliaccheria delle sigarette denicotinizzate non ci avevo pensato mai.
Come Dio volle arrivammo alla porta del Tergesteo ove bisognava dividersi. Il Misceli parlava oramai di tutt'altre cose: Affari di Borsa in cui egli era versatissimo. Ma mi pareva accaldato e anche un po' assorto. Mi pareva insomma ch'egli parlasse ma non ascoltasse se stesso. Era come me che non l'ascoltavo affatto e invece lo guardavo tentando d'intendere proprio quello ch'egli non diceva.
E non volli staccarmi da lui senza aver tentato di essere meglio informato su quello ch'egli pensava. E a questo scopo cominciai col rivelare intero me stesso. Scoppiai cioè: «Quella Felicita è una donnaccia». Il Misceli mi diede uno spettacolo nuovo, quello del suo imbarazzo. La sua grossa mandibola inferiore aveva un movimento che ricordava quello dei ruminanti. Si preparava a parlare movendo intanto quell'organo prima di sapere quello che avrebbe detto?
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