Persone:
Gabriele d'Annunzio, Odoardo Manara, Antonio Parrozzani,
Felice Barnabei, Vincenzo Cipollone



(12 dicembre 1900)

Gabriele D'Annunzio giudicato in Inghilterra

(dalla: «Rassegna Internazionale», di letteratura ed arte contemporanea. — Firenze)

           Prima di osservare quello che un anonimo scrive di Gabriele d'Annunzio nella Quarterly Review una delle più note e più autorevoli rassegne critiche inglesi, mi sia lecito rievocare un personale ricordo il quale può, credo, servire in certo modo a stabilire la differenza tra i giudizi inglesi ed italiani intorno al nostro poeta.
           Mentre con alcune signore parlavamo di letteratura, un vecchio e molto dotto titolare di lettere italiane in una Università d'Italia prese a discorrere dell'autore del «Piacere», condannandolo aspramente: secondo il dotto Professore il D'Annunzio non sarebbe che un abile compositore di musica che si serve dei suoni non già come eccitatori del sentimento ma come semplici particelle che, unite con un ordine prestabilito, procurino, a l'uditore, una sensazione piacevole, finita la quale abbia a tornare il silenzio, vanito fino il pallido, immediato, ricordo. — Il Professore rispondeva a chi gli avea fatto osservare esser possibile una contaminazione dello spirito del lettore dalla opera dannunziana, che il suo giudizio era meno severo di quello dell'interlocutore; una lettura inutile è sempre migliore di una lettura dannosa!
           — Ma se volete saper come penso, aggiungeva, confesserò che io considero il D'Annunzio uno di quegli uomini che sono sulla terra venuti per far molto male, così come altri, esempio il Manzoni, ci sono venuti per far molto bene!
           Al professore cercaron di rispondere due giovani dannunziani nel nodo della cravatta, nel gilet, nella barbetta, nelle parole strane non usate neppur dallo stesso poeta, nelle divisioni ridicole delle parole, in tutto fuor che nel valore dell'ingegno, quasi suggestionati dal Maestro così che non sapevano più distinguere quello che v'ha in lui di buono da quello che v'ha di cattivo: ripetevano che egli ha ricondotto la lingua italiana alla purezza primitiva e che, in somma, quello che era fatto da lui non c'era modo di criticare.
           Tra i contendenti, le signore e gli altri uomini seguivano o ciecamente il professore, affermando «ma che forma! ma che purezza! Nello scritto del D'Annunzio non ci sono che cose poco pulite!» o, facendo eco alle parole dei due dannunziani seguitando a rispondere «ma la forma! la forma è sublime!». Quel gruppo mi parve un magnifico campione del pubblico che in Italia giudica il poeta; tutti esagerati, tranne, s'intende, pochissime eccezioni: o ammiratori ciechi o accusatori anche più ciechi.
           Invece un critico inglese, fra tanto, andava leggendo e studiando le varie opere del D'Annunzio, cominciando dal Piacere, del 1889, e venendo al Fuoco, edito in quest'anno: e l'essere inglese, id est freddo e severo, e l'essere lontano dall'Italia, dalle piccole invidie, dalle ambizioni onde i giovanissimi sperano dall'astro del poeta anche un poco di luce, ha fatto sì che il critico della Quarterly Review abbia potuto dire che nelle opere del D'Annunzio sono immoralità tali da non esser possibile ammettere i romanzi di lui in Inghilterra senza averli prima castigati, e allo stesso tempo conchiudere esser lo stile di lui probabilmente l'alba di una nuova letteratura italiana.
           Giudizio, in vero, equo e che avrebbe da rimaner vivo nella mente di molti italiani!
           La prima osservazione dell'anonimo è questa: il D'Annunzio domanda, nella prefazione del Trionfo della Morte: non è possibile un libro ideale, di prosa, ma paragonabile, per virtù di stile, alla miglior poesia, in cui apparisca, sotto ogni aspetto, l'anima di una sola dramatis persona? Un libro tale è possibile, tale fu «Obermann», il «René», «Mario l'Epicureo», ma questi scritti non divennero popolari, la scuola onde derivarono vantò anzi il disprezzo della folla.
           «A tale scuola, dice il critico, appartiene il D'Annunzio né certo egli è tra i discepoli minori.
           Ed egli ha un alto valore a punto per la nuova Italia perché «i suoi romanzi della rosa, del griglio e del melagrano, posson diventar capitoli di una storia contemporanea, in cui sentimenti, opinioni e fino anche teorie estetiche appariranno.»
           Il D'Annunzio non è un pensatore solitario: originale può dirsi soltanto per quello che riguarda lo stile; la «visione dell'universo» che egli ci porta a contemplare è certo comune a molti altri, dice il critico.
           Ma qui parmi si potrebbe osservare che la «visione dell'universo» nel D'Annunzio è, invece, assai originale dipendendo sempre, più o meno direttamente, dalla condizione psichica dell'eroe della poesia o del romanzo, anzi che la condizione di lui da una casuale visione.
           Il critico afferma poi che il D'Annunzio è il Flaubert italiano. Entrambi sono per i deboli veleno mortale; per gli eletti come squilli di tromba che richiamino alla vita.
           «Io raccomando, continua lo scrittore, questo parallelo a l'attenzione del lettore. Flaubert è già assai noto a quella parte del pubblico inglese — assai piccola — (consoliamoci, non siamo soli!) che cerca nella letteratura, lo stile: il D'Annunzio, non ostante molte traduzioni, ha ancora da essere conosciuto. Eppure il problema che questi uomini rappresentano non è soltanto francese o italiano, ma moderno ed universale; è il rapporto tra Arte e Democrazia, tra un'opera poetica sincera, o di colori, o di parole o di suoni, ed una società in cui, come già osservarono pensatori sagaci, la cultura dell'ingegno è in grave pericolo. La cultura, quantunque distinta dall'etica e incapace di offrire una forza pari alla religione, ha sempre mostrato le sue affinità, o positive o negativo, a questi beni spirituali. Il D'Annunzio arditamente ci dice che l'Arte ha in sé il germe della vita; egli è un mistico e chiama il mondo «un dono dei molti ai pochi, sempre maggiormente bello e triste».
           Afferma il critico anonimo che è questa una vera religione, e si studia di scoprirne gli incanti misteriosi.
           Il principale di questi egli crede sia a punto lo bello stile dello scrittore, il quale il critico, per l'elevatezza della forma, giudica possa giustamente vantarsi di discendere da Dante, Virgilio e Sofocle.
           Il suo Italiano, è per l'anonimo, pieno di Dantesque idioms, e, quantunque non abbia né l'agilità né la spontanea grazia della prosa boccaccesca, «mostra, su i suoi forti periodi, ancora di nuovo l'imperial sigillo di Leonardo da Vinci.» Ha la leggiadria del Marini, ed è pur talvolta paragonabile a l'estasi di Caterina da Siena e del Frate di Scarperia; non è humorous né famigliare; quando il D'Annunzio nel Piacere, s'accosta a' foschi colori dello Zola o alla corrotta eleganza del Bourget, «la forma pare che respinga il contenuto».
           Così studiata la forma dannunziana il critico viene a una affermazione purtroppo vera ma che deve esser causa di dolore ad ogni italiano.
           «Tutto ciò, egli scrive, io temo il lettore inglese abbia da credere ciecamente. L'Italia non è più ora, come a' tempi di Elisabetta, una fonte di ispirazione per i nuovi poeti. La Germania s'è impadronita del campo musicale: il Faust del Goethe resta il capolavoro moderno; mentre l'«Anello» dei Nibelunghi sfida l'Europa a trovare non già un rivale ma un seguace delle armonie Wagneriane.
           «Il lauro di Bayreuth adombra i sogni del D'Annunzio,... Il genio d'Italia ornai sembra un fantasma vagante nelle gallerie dei quadri, mostrato dai Baedekers viventi che, per una buonamano conducono i forestieri...»
           A ragione il critico, ricordando l'entusiasmo del poeta nel commemorare neutre intellettuali grandezze, nostro artistico splendore, della nostra Terra che fu, per l'arte ne' secoli, dominatrice del mondo, afferma «qui non abbiamo a che fare con un vano cantore di un tempo vano, ma con un filosofo ed un patriotto.» E questo valga anche per quei critici che, nell'opera del poeta, non vedono che la forma!
           E in Italia non sono pochi!
           R. A. Gaillenga Stuart

(3 febbraio 1900)

Onore al merito

           Chi non conosce ormai nel nostro Abruzzo, anche nei più remoti suoi angoli, il nome di Odoardo Manara?
           Un giovane dall'aspetto simpaticissimo, dalle maniere squisitamente gentili, con tutte le seduzioni del genio scolpito sulla sua fronte di studioso, e che della forte Romagna ritrae tutta la innata fierezza e generosità di cuore, miste ai più nobili sensi dell'animo.
           Direttore da parecchi anni dell'importante Ospedale di Solmona, Egli meraviglia con le più difficili operazioni d'alta chirurgia, operando brillantemente e sempre con notevoli, splendidi successi che lo pongono ad un'altezza indiscutibile.
           A lui, eccessivamente modesto come i veri grandi son sempre, non giunga oggi discaro l'applauso dal cuore d'un amico della famiglia del Bono alla quale egli ridonò la gioia salvandone un figlio dilettissimo, il giovane artista Raffaele. Affetto da un ascesso inguinale, per il lungo spazio di tre mesi, non conosciuto dai medici i quali disperavano diagnosticando tutt'altro, la famiglia, inspirata, ricorse al Manata il quale, col suo occhio espertissimo e sempre indovino, scoprì il male di primo acchito!
           Provvidenzialmente! poiché la situazione dell'infermo s'era resa gravissima, e poi tutti sappiamo quanto gravi siano le conseguenze d'una diagnosi non indovinata!
           Affidato completamente al Manara, l'infermo, operato felicemente, uscì subito fuor d'ogni pericolo riacquistando in breve il suo pristino stato di floridezza, e mercé lo sapientissime medicature del valente Professore, sarà presto in grado di tornare sano e salvo in patria ove lo attendono ansiosissimi i parenti od amici.
           Al distinto Concertista, sebbene abbia diritto a lungo riposo che ci priverà per qualche tempo dei godimenti del suo arco sublime, auguriamo che torni presto all'arte e ci faccia giungere nuovamente l'eco dei suoi successi.
           Il più vivo ringraziamento della famiglia Del Bono all'illustre Manara a cui professerà un culto eterno di riconoscenza! — ed al nostro Abruzzo l'augurio d'essere a lungo onorato dalla presenza di sì splendida e geniale illustrazione della scienza!
           M. M.

           La fama di questo bravo ed ardito operatore che ci ricorda il Palasciano, è ornai assodata. Anche tre giorni fa il Manara operava brillantemente in Teramo l'avv. de Marco, il quale ha migliorato sensibilmente dopo l'operazione chirurgica. Sappiamo che il Dr. Manara tornerà lunedì a visitare l'infermo. (N. d. U.)

(14 febbraio 1900)

Profili di sanitari abruzzesi
Odoardo Manara ed Antonio Parrozzani

           Quando sulle colonne del Corriere Abruzzese si encomiò la prima volta lo scibile di Odoardo Manara, io — a dir il vero — suo amico e compagno di studi, provai soddisfazione inaudita, e godo che costì la riputazione di lui sempre più si consolidi, e sia ormai condivisa da tutti la mia stima e beneficenza. Odoardo Manara è il primo operatore degli Abruzzi. Non è una di quelle autorità che si chiamano specialisti, che cioè sanno qualcosa di quel che gli altri non sanno, e nulla di quel che gli altri sanno: egli sa di tutto e profondamente, e con la stessa dottrina e con la stessa indifferenza fa diagnosi difficilissime ed operazioni ardite, coronate sempre da brillanti risultaci.
           Oltreché per la valentia professionale è da tutti ammirato pel suo carattere integro e per l'animo gentile. La bontà, la modestia, l'affabilità, e semplicità di modi sono costantemente la sua guida nell'esercizio dell'arte nostra. È diligente, ed osservatore rigidissimo della teoria del Lister, da cui — ed a buon diritto — ottiene insperati trionfi nella chirurgia cerebrale ed addominale.
           Nel giugno del passato anno lo rividi in costume da ciclista un po' civettuolo nella stazione di Solmona, ove mi prodigò, con quella franchezza che tanto lo distingue, un mondo di cortesie. E ben volentieri, se il tempo non mi fosse stato tiranno, avrei aderito al suo desiderio di visitare l'ospedale e la camera operatoria specialmente, da lui rimessa a nuovo e secondo i dettami della scienza moderna. Quod differtur, però, non aufertur.
           È Professore pareggiato in oculista presso l'Università di Roma, ove studiammo e c'imparammo ad amare, e, quel ch'è più, è splendido esempio di caro collega. Ha anch'egli — ed a ragione — in disprezzo quella classe di esercenti che, guidati dal solo interesse, uccide ogni nobile ideale, ed il nome di collega è soffocato dall'idea della gelosia e della simulazione.
           E di un altro giovane chirurgo per quanto modesto, altrettanto studioso, ardito, calmo e fortunato si è ormai arricchito il nostro Abruzzo. È questi il dottor Antonio Parrozzani di Aquila, figlio dell'illustre scienziato prof. Giovanni, onore e vanto delle chimiche discipline, e d'Isola decoro, ove sortì i natali, ed ove l'invidia e la maldicenza regnano sovrani negli animi della sterminata fatuità degli sciocchi!
           Abbiamo viva nella mente la difficile sutura del cuore, per ferita trasfossa del ventricolo sinistro, operata splendidamente e con esito felicissimo dal dott. Parrozzani e tentata invano in Italia ed all'estero da valenti chirurgi.
           Il dott Parrozzani, assistente quando nel passato anno lo vidi a Roma del chiarissimo prof. Montenovesi, aveva di già una brillante statistica dì 100 e più laparatomie. Nella chirurgia pleurica, ove conta un'infinità di operati, ha, con buonissimo risultato, eseguiti i metodi dell'Estander, Schede, Quénu e quello infine del nostro maestro prof. Durante.
           Il prof. Mingazzini, in una sua magistrale lezione sulle malattie del sistema nervoso, con vero entusiasmo parlò del dott. Parrozzani, chiamandolo giovane di belle speranze. All'umile ma valoroso collega, che, in età così giovane, ha saputo procacciarsi collo studio indefesso tanta fama, gli auguri più sinceri di splendida carriera.
           E tornando ora al Manara, per chi non lo sa è cavaliere: a questo titolo non tiene per nulla e preferisco — io credo — la onorificenza che con sicuro affetto i veri amici, per spontaneo sentimento, gli tributano.
           Dall'Umbria Verde 9 febb. 1900.
           Dott. Antonio Tattoni.

(10 marzo 1900)

Chiacchiere del sabato
Un rapito

(Uno schizzo del Giorno su Barnabei)

           I giornali hanno dato la notizia che il commendatore Felice Barnabei ha lasciato l'ufficio di direttore generale delle Belle Arti, chiedendo, come si dice nella terza lingua dello Stato, d'essere collocato a riposo. Una deliberazione simile, così grave non mi pare debba passare inosservata. Perché, prima di tutto, il commendatore Felice Barnabei non era arrivato a quello che è il massimo grado nella gerarchia burocratica d'un colpo e d'improvviso; il suo cammino, anzi, l'aveva fatto colla lentezza pertinace di un buon abruzzese della razza vecchia. Insegnante di Liceo era stato posto al Ministero da un archeologo illustre, il Fiorelli, che lo aveva voluto, segno di onore, con sé. E là dentro, passo passo, il Barnabei era diventato direttore generale. Chi ha potuto da vicino seguirlo nell'ufficio afferma che vi portasse sempre un temperamento del tutto accomodante: negli ultimi anni, dacché era direttore, aveva dovuto passare traverso parecchie battaglie, una delle quali clamorosa anche pel pubblico alieno dai segreti riposti della amministrazione: quella col commendatore Helbig. Il direttore generale delle Belle Arti, accusato, reagì violentemente non solo accusando l'avversario, ma ponendo davanti a sé, contro di lui, la bandiera del nazionalismo archeologico. Fu uno scatto di vivacità, forse perché il solo arrivato sino al pubblico, che sbalordì i molti che conoscevano il commendatore Barnabei fuori dal palazzo della Minerva, fuori dall'ufficio suo. Per questi moltissimi, tra le quali c'erano e ci sono pure delle moltissime, legati tutti di intimità lieta con lui, egli appariva soltanto coll'abbreviativo accarezzante dato al suo nome, come Felicetto. E cioè, un archeologo amabile, un funzionario filosofo, un uomo sopra tutto di mondo che sapeva ugualmente bene accompagnare Sovrani alle visite dei monumenti e novellare graziosamente, con signore dell'aristocrazia intellettuale, riferire dottamente all'Accademia dei Lincei e portare il gradito contorno del sorriso ai pasti quotidiani nella Fiaschetteria toscana, dove tanti e così diversi gli stavano volentieri attorno.
           Nella sua natura meridionale non appariva che il sentimento di una meritata soddisfazione unito al desiderio della pace. Se nell'ufficio aveva risoluzioni recise, fuori non aveva che l'espansione della allegria organica, della pazienza rassegnata di quella profonda esperienza della vita che consiglia di non meravigliarsi e di non adirarsi di nulla, di contentarsi facilmente di tutte. E si contentava anche quando la sera, d'estate, passeggiava le vie di Roma portando con sé il barone Arciprete che gli narrava i ricordi della sua vita varia e non breve. Vedendolo, avvicinandolo chi non avrebbe detto: — Ecco un uomo che ha conquistato la sapienza d'essere soddisfatto! — Ebbene il commendatore Felice Barnabei, Felicetto, lascia l'ambito ufficio di direttore generale delle Belle Arti. Lo lascia, e perché? Per fare il deputato! Ecco il caso che può parere inconcepibile, il caso per cui un uomo d'ingegno e di esperienza, arguto per temperamento, filosofo per provato esercizio della vita, abbandona un ufficio che era il suo titolo d'orgoglio come funzionario, la ragione o, almeno, il titolo di un'esistenza tranquilla, operosa, invidiata, per far che? Per divenire deputato, egli che, certo, non si è mai commosso né per la Destra né per la Sinistra, che non ha parteggiato per questo o per quel ministro, che ha veduto soltanto con amore gruppi di statue e non ha sognato che partiti di pieghe e di linee. Come può essere avvenuto? Il commendator Barnabei che, forse, non c'era mai entrato come cittadino né come funzionario, è entrato un giorno a Montecitorio, come deputato per quanto incompatibile. In tale condizione di illegibilità originaria c'è rimasto pochissimo, ma quel pochissimo ha bastato per sedurlo completamente. Ha sentito il bisogno di quell'agitazione, di quel tumulto, di quell'accanimento di passioni che non erano mai state le sue. Dopo aver vissuto tanti anni nella contemplazione dell'antico grande, bello, immortale non ha potuto scostarsi dal contemporaneo della nostra Camera, minacciata di scomparire; dopo essere stata così poco esteticamente ammirabile, da un giorno all'altro. Queste sono le stranezze della politica, una cosa che pare odiosa ed è tanto amata, come nessun'altra!


           Ed a chi capisce il francese, dedichiamo quest'altro articolo dell'Italie:
           L'hon. Barnabei qui se représente devant les électeurs de Teramo, convoquè le 18 courant pour l'élection de leur député, pour devenir éligible a donné sa demission de directeur general des Antiquités et Beaux-Arts au ministère de l'Instruction Publique.
           Ce ministèro en perdant M. Barnabei fait une perte considèrable, car M. Barnabei est une indiscutable autorité en archeologie.
           M. Barnabei a continué au ministére de l'Instruction Publique les tradìtions du regretté sénateur Fiorelli qui fut une gloire de l'archéologie italienne. En quittant la bureaucratie pour la politique, M. Barnabei, avec son talent, saura conquérir une belle place dans le Parlement italien.

(28 marzo 1900)

Onori ad un magistrato

           Il Procuratore del Re presso il Tribunale di Bari, avv. Vincenzo Cipollone, che fu già con tanta lode sostituto procuratore in Teramo, venne testé insignito della croce cavalleresca.
           Questa onorificenza, meritatissima, provocò una manifestazione d'onore da parte di tutta la famiglia giudiziaria barese, il cui capo, nell'offrire al ch. magistrato le insegne della Corona d'Italia, gli presentava pure, con opportuno discorso, il seguente nobilissimo indirizzo che scolpisce in modo mirabile le alte qualità di mente e di cuore del cav. Cipollone:
           Signor Procuratore del Re presso il Tribunale Civile e Penale di Bari

Avv. Vincenzo Cipollone

           per attestato di stima e di ammirazione in occasione della sua nomina a cavaliere della Corona d'Italia.
           Il recente conferimento della onorificenza cavalleresca porge a noi la occasione di manifestarvi i nostri sentimenti. Ma non ne è la ragione; dappoiché, se dall'un canto rifugge dal nostro animo fin l'ombra di una non dignitosa piaggeria e dall'altro voi non la degnereste del vostro aggradimento, questa nostra manifestazione, e ci piace affermarlo, muove da quel singolare fascino che le anime veramente buone spandono intorno a sé e rendono un dovere l'ammirazione altrui. E tale Voi siete e tanto Voi meritate. Dalle natie balze del granitico Abruzzo traeste la fierezza indomita e la dialettica coerenza del carattere; dagli insegnamenti di una carriera non lunga ma fruttuosa di imitabili esempi, la non mai smentita equanimità del giudizio; da' coscienziosi e diuturni studii, una severa cultura ma non arida, naturata bensì d'intelletto e d'amore per un purissimo ideale di giustizia; dalla probità insigne e dalla vita virtuosamente modesta, la signorilità squisita delle vostre maniere che tutti agguaglia nella serena esplicazione delle vostre funzioni. Egli era per ciò che non potevano restringere la manifestazione nostra a meri congratulamenti stante che Voi eravate già da tempo decorato, ma dalla vostra virtù!
           Questo intendevamo dire, questo oggi vogliamo affermare — Che, se la ingenita modestia a Voi impedirà di acconsentirvi, non sarà men vero che la ammirazione, quando meritata, è tale una imposizione della coscienza pubblica che a niuno è lecito non che rifiutarla, ma ne manco sottrarvisi in qualsivoglia modo.
           Onore adunque al preclaro magistrato, al virtuoso Vincenzo Cipollone.



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