(Quarta Parte)

I compici di Acciarito
Corte d'assise di Teramo

       L'ultimo teste.

       Udienza 3 aprile — Il teste on. Berenini non risponde. Occupato negli avvenimenti della Camera non è potuto venire. Si consente a rinunziarlo.
       E' inteso Pietro Calcagno, nato a Fontanelle Po, di anni 43, fornaio. E' il noto agitatore operaio romano. E diventato rauco, ma parla bene e con molta vivacità. Egli dice che fu a Roma fino a un paio di mesi e mezzo prima dell'attentato. E' di sentimenti anarchici. Esclude che nelle riunioni anarchiche di Roma si siano tenute conferenze nelle quali si incitava il popolo a fatti di azione. Tali fatti violenti e individuali non sono un postulato dell'anarchia, che combatte non contro gli uomini ma contro le istituzioni, e non può favorire gli attentati contro i sovrani, che partoriscono un effetto opposto alla propaganda anarchica. Esclude di aver mai conosciuto Acciarito. Conosceva Diotallevi quando era ancora un ragazzo, e Ceccarelli che grandemente stimava per la bontà delle sue qualità personali.
       Il P. M. presenta il certificato penale di Calcagno, da cui risulta ch'egli è stato varie volte condannato per reati d'indole politica.
       Avv. Brenna. Non sono le condanne infamanti, per reati comuni, che bollano i testimoni di accusa!
       Il Presidente legge anche alcune informazioni della questura intorno al Calcagno. Gli avvocati protestano.
       Avv. Albano. Fa istanza che si richieda al tribunale di Catanzaro un certificato di assoluzione per inesistenza di reato in favore di due individui che erano stati imputati su denunzia dell'Angelelli.
       Il P. M. fa qualche osservazione; il teste Calcagno dà spiegazioni intorno alle condanne ricevute.
       — Mi conosce il popolo, egli dice.
       L'avv. Brenna conferma la stima che gode in Roma il Calcagno per la sua onestà e moralità.
       Quindi il Calcagno si allontana, salutando con la mano gli accusati.
       Il P. M. domanda che si dia lettura del verbale del dibattimento nelle Assise di Roma, nel punto in cui Acciarito, a richiesta del proc. gen. Tofano, confermò le sue rivelazioni.
       L'avv. Ranzi osserva che deve tenersi presente il dibattimento alle Assise di Teramo, nel quale Acciarito dopo aver fatta la ritrattazione, ad ultima richiesta del Presidente, pienamente la confermò.


       La requisitoria del Proc. Gen.

       Il Presidente dà la parola al sostituto procurator generale cav. Paletti.
       Egli deplora vivamente il misfatto del 22 aprile 1897 contro la persona del Re. Dice che tratterà la causa riepilogando i fatti intorno a questi tre quesiti principali:
       1. Acciarito ebbe complici?
       2. Se li ebbe, è provato che fra essi fossero i quattro accusati?
       3. Quale la loro responsabilità secondo le disposizioni del nostro Codice?
       Enumera e commenta le circostanze per le quali si confermò il concetto che Acciarito non poté essere solo. Se non c'è prova oculare, c'è però tale cumulo di indizi che vale bene una prova diretta. Secondo il proc. gen. l'accusato Collabona è il primo fattore del delitto commesso da Acciarito e ne spiega i motivi in tutti i fatti che riguardano il Collabona e provano le sue relazioni con Acciarito. Lo stesso fa per l'accusato Gudini, che dipinge come pervertito dalla idea di anarchia. Quanto a Ceccarelli e Diotallevi non è vero che essi avessero sconsigliato l'Acciarito, invece questi ha confessato che anche in loro era l'idea di uccidere il Re; essi inoltre dinanzi ai magistrati serbarono il contegno di uomini colpevoli. Esamina i fatti a loro carico.
       Acciarito disse la verità quando fece le sue rivelazioni e l'oratore difende i metodi di polizia adoperati dal direttore Angelelli che avevano un fine di bene. Sull'animo di Acciarito non poteva, del resto, recare quella impressione che si pretende, la notizia de figlio. Ma la sua ritrattazione è parziale, onde bisogna ritenere rispondenti alla verità le rivelazioni sostenute alle Assise di Roma.
       Il proc. gen. sostiene che gli accusati debbano rispondere di complicità necessaria.
       Conclude chiedendo un verdetto affermativo per i quattro accusati.
       L'oratore ha parlato oltre due ore, con frase elegante.


       Le arringhe della difesa

       Primo della difesa è l'avvocato Francesco Zerbinati.
       Egli si duole che il P. M. non abbia voluto compiere il generoso atto di ritirare l'accusa. Dopo gli attentati anarchici la polizia, che non ha saputo arrestare il delitto, è solita cercare il complotto. Dove e come avrebbero insieme cospirato i quattro accusati, che neanche si conoscevano fra loro?
       Egli parla in favore del Gudini, contro cui si son tanto esagerate le cose da dipingerlo come anarchico pericoloso nell'età di 16 anni, quando, secondo un testimone, egli ancora giocava alle piastrelle. Che razza di rafforzatore del proposito criminoso di Acciarito poteva essere costui?
       Si dice che abbia, se non istigato, aiutato Acciarito. L'oratore esclude, per le circostanze dell'ora in cui avvenne l'attentato, ogni possibilità e verosimiglianza di aiuti.
       Ribatte ciò che di sospetto possono aver deposto pochi testimoni, a carico del Gudini. Dimostra invece la perfetta corrispondenza fra la questura di Roma e l'ergastolo di Santo Stefano, in modo che si faceva da Acciarito confermare qualunque fatto architettato dalla questura.
       Censura aspramente il P. M. che ha fatto la difesa dei metodi usati dalla polizia. Questo processo veramente non doveva venire alla luce! Si costringeva Acciarito a coprire con le suppliche al Re le vittime ch'egli denunziava, come l'imperatore romano copriva le sue vittime di fiori!
       Accenna alle brutture morali che si compievano in Santo Stefano, in quel solitario e orribile luogo, in quello scoglio della morte. E pure la verità ha rotto i cancelli dell'ergastolo ed è venuta fin qui.
       Fa risaltare l'impressione che reca sull'animo anche dei più feroci delinquenti il ricordo della madre e dei figli. E fa una efficace dipintura psicologica di Pietro Acciarito, al quale si infliggevano i tormenti più spietati nell'anima, con la falsa notizia del figlio, per indurlo a parlare. (commozione; gli accusati piangono). Alle Assise di Roma egli aveva ancora nelle carni le unghie dei suoi inquisitori.
       Pone in evidenza il tragico confronto che dinanzi alle nostre Assise si è avuto tra Angelelli e Acciarito; quando a costui si ricorda la famosa lettera falsa, il numero 378 ridiventa l'uomo con tutte le sue passioni e i suoi dolori, ed egli non grida più, ma piange e fugge dinanzi al suo persecutore. Qui egli ha detto la verità.
       Così, conchiude l'oratore, abbiamo assistito al fatto strano di un regicida che si rende vendicatore e propugnatore di giustizia. Ma il popolo italiano è ancora così forte da porre in oblio il fatto isolato e inconsulto che il fanatico Acciarito commise contro il nostro Re. E i giurati, in nome del popolo, sapranno rendere giustizia sicura e serena.
       (Approvazioni vivissime; i colleghi si stringono d'intorno all'avv. Zerbinati per congratularsi della bella ed efficace arringa).
       Sono le ore 18, l'udienza si scioglie.

       Oggi continueranno le difese. Il verdetto forse non si potrà avere prima di domani sera.

I complici di Acciarito
Corte d'assise di Teramo

      Le difese.

       Nell'udienza del 4 parlò prima il giovine difensore Romolo Ranzi per Diotallevi; poi gli avvocati Positano ed Albano per Collabona. La difesa del Ranzi piacque per i buoni argomenti ch'egli seppe addurre e che mostrarono com'egli avesse bene studiate le pagine del processo; l'avvocato Positano fece un'arringa erudita dimostrando che questo processo è un errore storico e ricordando l'ultimo colloquio di Acciarito con la madre nelle nostre carceri, dov'egli confermava l'innocenza degli accusati; l'avv. Albano, con una orazione veramente forte ed eloquente commosse alle lagrime anche i giurati, e fu abbracciato e baciato dai colleghi.
       Nell'udienza del 5 parlò l'avv. Brenna in difesa di Aristide Ceccarelli, con calore di frasi e vivezza di concetti, riscuotendo larghe approvazioni.
       Il Proc. Gen. replicò brevemente difendendo la magistratura dagli attacchi ingiusti; conchiuse esponendo la sua fede nei giurati.
       La difesa dichiarò di non aver altro da dire.
       Tutti gli avvocati teramani che facevano parte del collegio rinunziarono alla parola, sia perché la causa era già stata discussa in tutti i punti, e sia anche perché, aspettandosi come cosa sicura l'assoluzione, non credettero tediare oltre i giurati e prolungare le ansie degli accusati, detenuti da 17 mesi.


       L' ASSOLUZIONE.

       Fatto il riepilogo dal colto Presidente nel modo più sereno e imparziale, ed esposti i quesiti per ciascuno dogli accusati, i giurati entrarono nella loro camera alle ore 15,35. Passarono venti minuti di intensa trepidazione, mentre una folla enorme si pigiava nella sala, e le signore gremivano la tribuna.
       Intanto carabinieri e guardie venivano disposti intorno ai banchi dei giurati dall'ispettore di P. S. il delegato Mazzoni cingeva la sciarpa.
       Quando suonò il campanello che annunziava il ritorno dei giurati un fremito corse in tutti. Alle 15,55 la Corte e i giurati erano al loro posto. Il capo giurato con voce ferina legge il verdetto che assolve i quattro accusati.
       L'avv. Ranzi si slancia ad avvisarli nella camera di sicurezza. Gli accusati tornano in udienza, pallidi, sorridenti. Dopo che il cancelliere ha nuovamente letto il verdetto, il Presidente dice :
       — Ordino che gli accusati vengano immediatamente posti in libertà!
       Tutto il pubblico prorompo in applausi e grida di evviva ai giurati. Si nota che dalla tribuna riservata anche le signore battono le mani. Gli accusati piangono ringraziando. Sono subito scarcerati.
       Nel cortile e nella strada si rinnovano gli applausi e gli evviva del pubblico. I quattro assoluti sono accompagnati dai loro difensori e dai corrispondenti di giornali nell'Albergo del Pellegrino e ivi fatti ristorare con brodo e carne. La madre del Diotallevi era sempre accanto al figliuolo.

       I quattro liberati partirono la sera, col treno, delle ore 20, per Roma, accompagnati alla stazione da molta gente, che fece una clamorosa dimostrazione ai giurati, alla giustizia, ai martiri della questura etc.

       Dopo la partenza degli assoluti, l'avv. Zefirino Tanzi invitò in sua casa i colleghi romani, mentre nel cortile il concerto cittadino eseguiva marcie e ballabili.
       I corrispondenti dei giornali partirono ieri mattina col treno delle 9, insieme con l'avv. Zerbinati. Gli altri avvocati romani partirono nel pomeriggio, col treno delle ore 16, per la via di Ancona-Roma, con accompagnamento di otto carrozze di lusso fino alla stazione, nelle quali presero parte molti avvocati del nostro foro.
       Il proprietario dell'Albergo dei Pellegrino, ove gli avvocati hanno alloggiato, offerse loro dello champagne prima che le carrozze si muovessero; i colleghi teramani offersero fiori.
       Alla stazione quando il treno si mosse, si gridò dai partenti Viva Teramo, a cui rispose un alto grido Viva Roma.
       Gli egregi e simpatici avvocati romani partirono commossi dalle cortesie ricevute.
       Essi c'incaricarono di esprimere per mezzo del nostro giornale i loro grati sentimenti verso la cittadinanza, dalla quale tante dimostrazioni ricevettero di simpatia e di solidarietà.
       Ai nuovi e cari amici inviamo a Roma nuovamente un saluto.


       Il processo Trenta

       Lunedì, dinanzi la Corte di Assise si procederà al giudizio in contumacia di Trenta Cherubino, un altro dei presunti complici di Acciarito.
       Si vociferava che egli fosse in Grecia, ma il Calcagno disse di averlo veduto a Londra.
       Per disposizione procedurale il giudizio è spiccio, senza intervento di testimoni e di giurati.
       La Corte presieduta dal cav. Rulli si riunirà in Camera di Consiglio, con l'intervento del P. M. e del cancelliere. Quest'ultimo darà lettura degli atti e documenti della causa, ed il P. M. farà la sua requisitoria.
       La Corte quindi deciderà, senza la presenza del cancelliere e del P. M. ed in udienza pubblica sarà poi letta la sentenza.
       Non è a dubitare che per criterio di giustizia, ed anche di opportunità la sentenza della Corte sarà di assoluzione, perché in caso di condanna, il Trenta si costituirebbe immediatamente e dovrebbe allora rinnovarsi tutto il dibattimento. E veramente il paese non potrebbe essere grato alla magistratura con tutto quel po' di putiferio di Acciarito, di Petito, di Angelelli.....


       Dopo il verdetto

       I giurati sono stati unanimi nello assolvere i quattro accusati di complicità nell'attentato a S. M. il Re — e non potevano fare altrimenti.
       L'opinione pubblica si era mostrata favorevole agli accusati, appena dopo la ritrattazione di Acciarito.
       Non è già che quelli fossero stinchi di santo e non avessero saputo e forsanco accarezzato il malvagio disegno di Acciarito, ma allo stato del processo, dopo le rivelazioni sul conto di Angelelli, sarebbe stata una iniquità condannarli.

L'assoluzione
       Note sul processo dei complici di Acciarito

       Il processo giudiziario è finito, non però quello della pubblica opinione, che ha per protagonista la coscienza popolare, per aula, la patria.
       Si è voluto scoperchiare un sepolcro senza la più elementare precauzione, e l'aria tutta ne fu ammorbata. Quella pietra è tornata a scendere novellamente, ma l'effetto disastroso si era già avuto; e quell'effetto è di natura immanente, poiché se non è una terribile rivelazione, è al certo fra i più impressionanti.
       Io credo ai fati or propizii, ora avversi che guidano le sorti degli uomini e i destini delle nazioni; ma credo pure nell'energia individuale, che può trasfondersi e propagarsi, e creare le manifestazioni collettive.
       Può darsi che un vento infido spiri sulla patria, e che un nembo denso ne larvi il cielo incantato: ma è in questi periodi difficili, che più grava la responsabilità dei reggitori.
       Spesso, e non è nuovo l'esempio, si perde la nozione delle circostanze, come pure il calcolo della opportunità; allora non è più compresa l'ora del tempo, e si vede di traverso, quando, a peggiore iattura, non si guarda e misura di rovescio.
       La percezione delle circostanze è ufficio vero ed eminente di statisti, ed è il solo ufficio; poiché l'amministrazione quotidiana della pubblica cosa non è che una meccanica, la quale non richiede di spirito eccellente più che di semplice valore burocratico.
       In questa che potrebbe dirsi ora affannosa della vita italiana, rivelatrice di bisogni impellenti, in mezzo allo scempio dei più preziosi istituti, dilaniati dalle ire di parte, in tutto questo rivolgimento della pubblica coscienza; che si è fatto allo scopo di scongiurare dannosi eventi?
       Fuori della politica che tanto oggi seduce i malaccorti, e schiaccia le tempre più forti, noi assistiamo a questa liquidazione morale che scoperchiò fino il tempio sacro della giustizia. Apertone il varco con un colpo brusco e violento di maestrale, ne fu offeso il Penate posto a tutela, offuscando la tradizione che splende nel martirologio giuridico, da Papiniano a Mario Pagano.
       Un errato sentimento di giovare alle istituzioni patrie, volle costruito quel processo, ch'ebbe tante fasi e tanti rinvii e tante Corti in predicato di discuterlo, e che fu tutto una ruina. — Se pacatamente, con maggiore prudenza, e più fine accorgimento, e pure con minore intolleranza, si fosse bene guardato addentro, fin nelle fibre di quello incarto processuale, non sarebbe stato difficile scorgervi un pericolo ed un ammonimento. Si volle affidare la debole zattera ai marosi dell'Oceano; e sulla riva, noi, spettatori impotenti, abbiamo più volte gridato ai temerarii, trepidanti come il poeta antico per le spoglie adorate di Virgilio, noi per quelle sacre della giustizia.
       Ed han voluto mettere a nudo l'ardimento d'un sistema inquisitoriale d'altri tempi, che doveva prevedersi quanto dovesse commuovere la pubblica opinione, e far sorgere il sospetto d'una costruzione processuale voluta più che documentata.
       Né basta. Invero, dato un edificio sì malfermo ed instabile, fu inevitabile il confronto tra il direttore d'un penitenziario dello Stato e un regicida, dopo che a vicenda smentivansi ed accusavansi, creando due ipotesi differenti e circostanziate.
       In queste condizioni morali e giuridiche, una Corte della nazione fu chiamata a risolvere la contesa ed esprimere il suo avviso!
       Non era da prevedersi il responso?
       Occorreva la sapienza di Stato o la profonda conoscenza della psiche umana per convincersi della fragilità dell'accusa, resa più inferma dalla natura dell'istruttoria, esumata dalle consuetudini d'altri tempi e d'altri uomini?
       Ebbene, anche su tale funzione altissima di giustizia si ripercosse disastrosamente la patologia intellettuale di questo periodo mesto della vita italiana, facendo perdere l'equilibrio che ne è il fondamento integrale, e la speranza dell'altezza che ne delinea la meta suprema.
       E quel popolo gagliardo di Abruzzo esplose in verginali entusiasmi inneggiando alla giustizia.
       Ed in quell'inno c'è tutta una rampogna.
       Quel popolo forse non corrotto ancora dalle concessioni eccessive dei governi, né da agiatezze compre col sacrificio del carattere e della coscienza, non facile a commuoversi se non ai grandi ricordi, insorse in onore della giustizia.
       Forse in quel verdetto, esso vide sancita la terribile condanna alle audacie d'una inquisizione già spenta.
       E bene interpretò.
       Quel popol quantunque poco debba al presente, ricorda con orrore il passato; perciò sdegna ogni ricorso di tal natura.
       Quel grido di lode che per la nobile regione fu un onore, sia ammonimento per altri.
       La giustizia è terribile: è come il fuoco; offendendola, brucia.
       Roma, aprile 1900.
       Avv. Aurelio Caponetti.

Echi di un processo

       Leggiamo nel Popolo romano:
       Alcuni giornali seguitano a fantasticare su provvedimenti che il Governo dovrebbe prendere a carico del cav. Angelelli, direttore dell'ergastolo nel quale scontava la pena Acciarito.
       E quali provvedimenti si dovrebbero prendere?
       Dinanzi alla persuasione molto ben fondata che l'attentato Acciarito fosse l'effetto di un complotto, il cav. Angelelli, in seguito ad ordini ricevuti, ha cercato di scoprire i complici del regicida.
       Non ci pare — lo dicemmo già altra volta — che abbia poi fatto tanto male.
       Non andiamo a cercare se fossero vere le rivelazioni fatte in carcere dall'Acciarito e confermate poi alle Assise di Roma in un momento solenne, quando cioè, dopo conosciuto tutto il retroscena, egli fu chiamato dal Procuratore generale in piena udienza a dichiarare se fossero vere o no; né andiamo ad indagare se sia più attendibile la sconfessione che ne fece alle Assise di Teramo, sulla quale si è basato il verdetto dei giurati, che va rispettato.
       Certo è che il sentimentalismo, di cui si fa sfoggio e pompa in questa occasione a favore di un malfattore come l'Acciarito, ha veramente del morboso.

       E' vero quanto osserva il giornale romano. Ma non dimentichi che il sentimentalismo verso Acciarito è derivato dai mezzi usati per carpirgli una confessione che poi ha ritrattato.



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